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 2014  aprile 17 Giovedì calendario

KIWI, FARMACI LA SORPRESA DELL’EXPORT MADE IN ITALY


Per ora nemmeno il super euro è riuscito a fermare la straordinaria cavalcata dell’export italiano che negli anni della Grande crisi è servito a tenere in piedi il Paese. I dati di ieri dell’Istat confermano come la sopravvalutazione della moneta unica ci stia creando qualche problema soprattutto negli Usa (a febbraio le esportazioni sono scese dello 0,9% rispetto a gennaio) ma esaminando gli indicatori sulla lunghezza di 12 mesi registriamo un confortante +3%. Esportiamo un po’ meno dei tedeschi (+3,7%) ma meglio dei cugini francesi (fermi a +2,7%) nonostante che questi ultimi abbiano una presenza della grande distribuzione all’estero inimmaginabile per noi. Guardando più da vicino la nostra performance ci sono alcune sottolineature che è utile fare.
In primo luogo le nostre imprese si sono mostrate capaci di vendere sia sui mercati di tradizionale presenza (Usa ed Europa) sia su quelli emergenti, dimostrando così ancora una volta una grande capacità di adattamento. È vero che l’immagine del made in Italy all’estero è trainata dai grandi marchi del lusso e dell’alimentare ma le piccole e medie imprese, quelle organizzate nella formula dei distretti, fanno segnare risultati di almeno un punto superiore alla pur lusinghiera media nazionale. Infine, sul podio dei campioni dell’export italiano stanno salendo settori che non avremmo considerato tali come il farmaceutico, che ha fatto registrare nell’ultimo anno un tasso di crescita del 12%; tra i Paesi produttori di medicinali siamo quello che sta realizzando i maggiori incrementi di ricavi all’estero. Per chiudere queste considerazioni vale la pena riportare un singolare studio realizzato dalla Camera di commercio di Monza secondo il quale l’industria italiana ha la straordinaria capacità di «vendere vasi a Samo» ovvero di esportare più coltelli in Svizzera di quanti ne importiamo, e idem per la birra in Inghilterra, le patate e gli elettrodomestici in Germania, i mobili in Svezia. La verità probabilmente sta negli incredibili mutamenti che il commercio mondiale va determinando nelle tradizionali mappe della produzione. Gli stereotipi muoiono, basta pensare che noi subiamo l’onta di importare arance e siamo però diventati uno dei primi produttori mondiali di kiwi.
Vista la stagnazione del mercato interno probabilmente stiamo evolvendo verso un modello export led per necessità. O se preferite per sopravvivere. Di conseguenza i passi successivi vanno fatti con pieno discernimento, con il metodo (già adottato) della collaborazione tra ministero dello Sviluppo economico e associazioni d’impresa e concentrando le risorse disponibili su pochi e selezionati obiettivi. Ad esempio è giusto che nel campo dell’alimentare si sia individuato come prioritario un progetto di forte penetrazione del vino italiano in Cina. Oggi, infatti, siamo in una posizione ancillare rispetto ai francesi che tutt’al più ci concedono qualche corner nei loro supermercati. Ma lo straordinario successo che la nostra industria del vino ha conseguito nel mondo ci autorizza a scommettere anche sul più grande Paese asiatico. È urgente poi aumentare il numero delle imprese italiane che esportano stabilmente. Oggi possiamo stimare in 20 mila le aziende che vendono con continuità sui mercati stranieri mentre sono 70 mila le saltuarie alle quali va chiesto però un salto di impegno e di qualità. Teniamo presente che spesso un’azienda che conquista stabilmente quote di mercato si porta dietro la filiera di fornitura e quindi i numeri degli imprenditori coinvolti possono essere anche superiori. Sembrerà strano, poi, ma la stessa copertura geografica dei Paesi nei quali vendiamo con maggiore continuità può essere facilmente migliorata. Il caso più eclatante è quello degli States dove il nostro export è tutto sommato concentrato in tre aree: New York, Los Angeles e Miami. Ci sono da attaccare, quindi, altri mercati come quello del Texas nel quale siamo poco presenti e che rientra ora tra le priorità della nostra promozione.