Franco Venturini, Corriere della Sera 16/4/2014, 16 aprile 2014
L’AZZARDO DELL’INCENDIARIO DEL CREMLINO
L’ingerenza non è provata, ma servirebbe una dose davvero straordinaria d’ingenuità per credere che non ci sia lo zampino della Russia nei primi bagliori di guerra civile che scuotono l’Ucraina orientale. Del resto Vladimir Putin, mentre garantisce a Obama che lui non c’entra, pensa che la sollevazione di Maidan sia stata appoggiata dall’Occidente, ed è dunque probabile che si senta legittimato a rendere pan per focaccia, inganni compresi.
Questo senza dar peso alla già compiuta annessione della Crimea, e considerando «normale» la minaccia che viene dalle divisioni schierate a un tiro di schioppo dal confine dell’Ucraina. Sono proprio queste estreme e potenzialmente suicide scelte del Cremlino a rendere esplosiva la guerra civile che nell’Ucraina sud-orientale sta scoppiando in queste ore, perché se non si vedono pompieri a Ovest (dai toni spesso propagandistici di Kiev, s’è giunti all’arrivo in visita del capo della Cia), è ancor più vero che si vede all’Est un incendiario abile e spregiudicato che dirige le operazioni dalle torri del Cremlino. E questo mentre gli europei si mostrano esitanti, e Obama deve fare i conti con le accuse di arrendevolezza che la destra americana gli fa piovere addosso sperando di strappargli, il prossimo novembre, il controllo del Senato.
Sarebbe disonesto non vedere le nostre pagliuzze in un gioco che ormai rischia fortemente di sfuggire di mano (nemmeno le guerre balcaniche ebbero un potenziale destabilizzante paragonabile a quello che oggi fa perno sull’Ucraina), ma la trave, quella, è saldamente nelle mani di Vladimir Putin. Quali messaggi, infatti, ci giungono da Mosca?
In primo luogo, ci viene detto che pur di non «perdere» completamente l’Ucraina e di non cedere all’ulteriore avanzata dell’Occidente, Putin è disposto a incassare anche le sanzioni economiche e finanziarie del «terzo livello», quelle finora solamente minacciate e concepite per far male davvero. Il presidente russo si comporta come se il principale deterrente occidentale non esistesse, forse perché sa bene che per alcuni Paesi europei (a cominciare dall’Italia) esso avrebbe un effetto boomerang. E conta sul disordine nella Ue, forse perché è convinto (come non pochi economisti) che l’impatto di ritorno delle nuove sanzioni andrebbe a detrimento degli Usa e dell’Occidente intero. Nel breve termine può anche aver ragione, il capo del Cremlino. Ma il rischio suicidio al quale alludevamo viene proprio dal pessimo stato dell’economia russa, e dai danni devastanti che le sanzioni «dure» provocherebbero nel medio e lungo termine, trasformandolo in sicuro sconfitto.
Secondo, Putin non ha intenzione né d’alleggerire le sue azioni sovversive in Ucraina, né di modificare in alcun altro modo il suo comportamento se l’Occidente guidato dall’America non accetterà la riforma federalista in Ucraina prima del 25 maggio, prima cioè che le elezioni generali rendano legittimo sia il nuovo potere, sia una Costituzione diversa da quella voluta dal Cremlino. Semmai, è verosimile un’escalation sul terreno nelle prossime sei settimane.
Terzo, con una doccia scozzese non troppo raffinata, Putin ha ricordato agli europei che il gas è un’arma e che nessuna fornitura è garantita se cambiano gli equilibri geopolitici. Egli sa di certo che la prospettiva d’importare gas d’argilla, qualora gli Usa decidessero di esportarlo, imporrebbe all’Europa una attesa di anni e parecchi investimenti, a cominciare dagli impianti di liquefazione sulla costa americana e dai rigassificatori su quelle europee. Anche questo, però, è per Putin uno strumento di pressione pericoloso nel medio e lungo termine: il suo gas, la Russia ha bisogno di venderlo, e l’alternativa all’Europa sarebbe soltanto quella Cina che a Mosca provoca già brividi di paura (dietro le quinte, ma assai più dell’Occidente).
Se questi sono i tre segnali che Putin ci sta trasmettendo, si vede male come i contatti diplomatici, anche quadripartiti, possano modificare in meglio la situazione. Semmai, la «linea Putin» pone ai governi occidentali — compreso quello italiano, che tuttavia non è solo nell’insistere sul dialogo con Mosca — il problema di stabilire se e quando debba scattare il deterrente fatto di sanzioni particolarmente severe. Sin qui si è sempre detto che, per passare al «terzo livello», la Russia doveva rendersi colpevole di un nuovo abuso dopo l’annessione della Crimea, e meritare così il castigo. Ma se Putin continua a fare il destabilizzatore furbo, se getta il sasso e tira via la mano, le sanzioni vanno in vigore oppure no? In tutte le cancellerie occidentali il dibattito ferve, e non è univoco. Dopo la lezione siriana nessuno, e Obama meno degli altri, vuole parlare di «linea rossa». Si temono disaccordi che farebbero il gioco del Cremlino. Motivo di più per discutere una strategia politica che non sia esclusivamente fondata sulle sanzioni, su quelle sanzioni che l’imprudente Putin forse non teme più, ebbro com’è di consensi interni. Le vie percorribili sono poche. Una potrebbe essere quella di trattare sull’idea dell’assetto federale per l’Ucraina, cioè sul riconoscimento di una realtà storica, ma piantando tutti i paletti necessari per impedire che le autonomie dell’Est e dell’Ovest diventino la premessa di uno smembramento a tutto vantaggio del Cremlino.