Margherita Paolini, Limes: L’Ucraina tra noi e Putin 4/2014, 16 aprile 2014
PRENDI LA CRIMEA E PRENDI SOUTH STREAM
1. LA CRIMEA CONTRO IL GASDOTTO South Stream: questo il prezzo che Putin ha certamente calcolato per portarsi a casa Sebastopoli e le consistenti riserve di gas conservate nell’offshore della penisola. Nonostante sulla crisi ucraina gli occidentali mantengano toni forti, si comincia a lavorare alla de-escalation visto che ognuno ha ottenuto qualcosa. L’America ha giocato bene la carta delle sanzioni, che hanno intimorito i maggiori partner europei di Mosca più dello stesso Cremlino. La Nato, che dopo il ritiro dall’Afghanistan rischiava di restare disoccupata, ora può reinventarsi un menu aggiornato per la difesa della sicurezza energetica degli alleati, così giustificando corposi finanziamenti al suo languente budget.
Finito il primo round con la caduta di Janukovyč e la conseguente riconquista russa della Crimea, si va dunque aprendo una nuova partita ucraina. La posta in gioco è il mercato del gas europeo. L’America con i suoi alleati europei punta a una riscrittura delle regole per mettere al passo Gazprom, riducendola a mero venditore di gas alle frontiere comunitarie e a quelle orientali ucraine, su cui l’Ue ha esteso di fatto la sua influenza. Lo scenario prevede alleanze commerciali eterogenee di operatori di utilities, grandi traders europei e globali di gas e di gnl, fornitori di impianti di rigassificazione, concorrenti in generale o nello specifico di Gazprom. Le preoccupazioni geopolitiche sulla sicurezza energetica europea e la coalizione della concorrenza commerciale a Gazprom sul mercato del gas europeo hanno contribuito a coagulare, nel corso del 2013, alleanze funzionali a entrambe le sponde dell’Atlantico, pronte a sfruttare la crisi ucraina per ridimensionare le ambizioni del Cremlino.
Nel corso del 2012, la Russia era stata scavalcata sul mercato europeo dalla Norvegia, che si era adattata velocemente al mercato spot dei prezzi, ribassato dalle partite di gas naturale liquefatto (gnl) rifiutate dagli Stati Uniti – ormai grandi produttori di gas non convenzionale da scisti – e reindirizzate da traders e produttori verso i terminali degli hub inglesi e olandesi. Gazprom, ancorata testardamente ai prezzi del petrolio, aveva accusato la caduta delle forniture, salutata da Bruxelles come una strutturale inversione di tendenza. Nel 2013 si è avuta a conferma del calo degli arrivi di gnl ai terminali nordeuropei iniziato bruscamente nel 2011. I produttori mediorientali si erano infatti riorientati verso il mercato asiatico, di un terzo più remunerativo di quello europeo, con il risultato di far sfumare anche le forniture di costosi impianti fissi o galleggianti di rigassificaori nel Baltico e nel Mediterraneo che alcune multinazionali si attendevano: il gas via condotte tornava ad essere competitivo.
Di qui la forte ripresa delle vendite di gas russo, confermata dai dati consolidati relativi al 2013, grazie alla più flessibile politica dei prezzi praticata da Gazprom. Recuperato il primo posto di fornitore, favorita da una capacità produttiva da indirizzare al mercato europeo che arriva fino a 200 miliardi di me/anno a ronte di quella norvegese di 115 miliardi di mc/anno – Gazprom ha spuntato forti aumenti delle vendite a Germania, Italia, Regno Unito e a diversi paesi del’Est, geopoliticamente oltre che commercialmente importanti per Mosca. Inoltre, l’uscita di scena del progetto di gasdotto sponsorizzato da Bruxelles, il Nabucco West, battuto nel 2013 dalla più modesta condotta transadriatica Tap, è apparsa dare nuovo slancio al progetto russo South Stream che, tra l’altro, riportava Mosca a stringere forti partnership nei Balcani occidentali.
A conti fatti e rifatti, resta intatto lo scenario di fondo di una forte dipendenza dal gas russo di cui l’Europa non può fare a meno neanche a medio termine, figurarsi sul breve, per mancanza di alternative reali e consistenti. A meno che non si voglia ricominciare a produrre elettricità a tutto carbone, visto che l’America, ormai convertita al gas, lo vende a prezzi stracciati.
2. In questo scenario, nel quale enfatizzando la crisi della Crimea si mimano vecchi copioni da guerra fredda, da parte occidentale si cerca di mettere in pratica una strategia volta a riscrivere le regole del gioco con cui Gazprom è riuscita ad espandere la sua presenza sul mercato europeo del gas. Questa strategia, per la molteplicità dei soggetti che vi convergono, ha pochi registi visibili: gli Stati Uniti spiccano sulla scena per l’assenza di altri. Bruxelles è una comparsa, utilizzata dal superattivo Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca) trainato da Varsavia. Il primo ministro polacco Donald Tusk si è spinto fino a osservare che «la dipendenza tedesca dal gas russo può effettivamente limitare la sovranità europea». Quanto al particolare rigore che sulla questione ucraina dimostra il commissario europeo per l’Energia, il tedesco Günther Oettinger, esso è certamente influenzato dalla conoscenza profonda che esperti polacchi hanno dei paesi dell’Est europeo in cui si è maggiormente sviluppata la presenza invasiva di Gazprom con le sue innumerevoli associate locali.
I paesi del Gruppo di Visegrád continuano a essere importanti clienti del gas russo e quindi sono molto interessati a ridimensionare Gazprom, riducendolo alla stregua di grande distributore posizionato alla frontiera ucraina, a prezzi sorvegliati. Il prossimo anno quei paesi devono rinnovare i loro contratti di approvvigionamento di gas russo e vorrebbero dunque disporre del maggior potere contrattuale possibile. Per questo hanno cercato collegamenti con i leader della Camera e del Senato degli Stati Uniti sollecitando invii di gnl americano nel quadro della solidarietà atlantica. Anche se sanno benissimo che attivare un flusso di gas dagli Stati Uniti all’Europa è operazione impraticabile nel breve termine: le prime forniture di gas americano, che si potranno attivare nel giro di due-tre anni, sono già legate a contratti con paesi asiatici. I flussi di export del gnl (costoso per i trattamenti di liquefazione) seguono infatti la logica dei prezzi, non della geopolitica. Lo ha detto recentemente anche Angela Merkel e lo ha platealmente ribadito davanti al Congresso Usa il rappresentante del ministero dell’Energia: «Non siamo noi a inviare gas ma compagnie private. Non è l’Europa che compra il gas ma aziende private europee. La realtà è che il gas naturale nordamericano non ha un prezzo attraente per la maggior parte delle aziende europee. E trovatemi una compagnia americana disposta a perdere ricavi per inseguire obiettivi geopolitici».
Le rassicurazioni di Kerry e Obama, che accreditano lo scenario di una forte ripresa delle forniture di gnl sul mercato europeo grazie soprattutto a esportazioni dagli Stati Uniti, sono funzionali a irritare Mosca. Non solo il Gruppo di Visegrád ma tutti gli operatori del settore hanno interesse a sostenere questo scenario.
3. Se il ricatto della concorrenza del gnl americano non impressiona Mosca, che anzi favorisce le partnership tra le maggiori aziende energetiche russe e le big oil internazionali per recuperare spazi di mercato anche in quel settore, è l’attacco concentrico volto a limitare le sue politiche commerciali che viene avvertito come un assedio. Punto di partenza e leva del braccio di forza è la piattaforma logistica dell’Ucraina, con il suo network di gasdotti e di stoccaggi. Ma anche con le sue consistenti risorse energetiche non convenzionali (shale gas) cui, prima dell’avventura di Crimea, si aggiungevano le importanti riserve offshore al largo delle coste della penisola riannessa alla Russia (una grossa perdita per Kiev). La sua collocazione geografica assegna alla piattaforma ucraina un ruolo importante di collegamento tra i mercati europei occidentali e orientali.
Ma per fare dell’Ucraina un futuro hub orientale del marketing europeo del gas che abbia anche una valenza strategica per il Gruppo di Visegrád, occorre che il gas russo di cui non si può fare a meno continui ad arrivare agli ingressi della rete ucraina posizionati nel suo Est e di qui fluisca verso gli stoccaggi situati nell’Ovest del paese e verso i consumatori europei. L’obiettivo è di forzare Mosca a rimanere agganciata alla piattaforma ucraina e a mantenere il grosso delle forniture al Vecchio Continente: 86 miliardi di metri cubi all’anno, pari al 34% del totale, Turchia inclusa.
Questa è la partita che si gioca nel prossimo futuro. È probabile che il tiro alla fune abbia fasi alterne e che il blocco delle forniture russe via Ucraina venga spesso minacciato ma non attuato. Nel caso si verificasse, il giro dei circuiti alternativi che Mosca aveva previsto di utilizzare per rifornire i suoi principali clienti del mercato centro- e sud-europeo offre oggi una flessibilità piuttosto ridotta, a causa dei paletti burocratici già predisposti dalla Commissione. Il commissario Oettinger, in carica ancora per poco, ha fatto in tempo a mettere in atto misure duramente punitive nei confronti delle politiche dilatorie e sfuggenti di Gazprom sull’unbundling (spacchettamento), varate nel marzo 2011, che intendono costringere il monopolista russo a vendere la propria rete di distribuzione nei paesi comunitari per prevenirne l’abuso di posizione dominante. Oettinger ha preparato un dossier già blindato per il suo successore, che fa di Gazprom una sorta di vigilato speciale a causa dei suoi trucchi societari (diffusi però in tutto il settore energetico europeo). Un approccio fondato sull’applicazione strettissima dell’unbundling, che tutti gli operatori in Europa devono rispettare, ma che prende di petto Gazprom.
Stabilendo che «tutti i contratti firmati con i paesi che sarebbero attraversati da South Stream non sono in linea con le regole europee», Oettinger ha chiuso la porta al progetto russo di un corridoio meridionale destinato ad aggirare l’Ucraina. Dopo il vertice di marzo del G7 in cui il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha annunciato la decisione di «ridurre la dipendenza energetica specialmente dalla Russia, riducendo la domanda, diversificando le vie di approvvigionamento ed espandendo le risorse locali», il South Stream è stato di fatto dichiarato morto. Anche se le dichiarazioni di Van Rompuy sono apparse del tutto velleitarie quanto alla possibilità di una diversificazione consistente degli approvvigionamenti europei, per Oettinger è stato sufficiente questo messaggio politico a Mosca per far scattare la partita parallela, «dura e pura», della Commissione nei confronti di Gazprom.
La posizione assunta da Oettinger non è irrilevante nella parata degli schieramenti occidentali: infatti costringe a uniformarsi ai dettami del terzo pacchetto energia anche i più riottosi partner europei, forti clienti del gas russo. Ormai a Mosca si pongono condizioni di uso dei gasdotti basate sul fatto che quando questi attraversano il territorio comunitario passano sotto il vaglio ultimo della Commissione. Strategia difficilmente aggirabile. E che può rivelarsi per Mosca altrettanto pericolosa di alcune sanzioni Usa contro personalità eminenti del sistema energetico russo.
4. Visto che Mosca fornisce all’Europa quantità di gas tali da non poter essere sostituite, si testa la possibilità, proprio a partire dalla scacchiera ucraina, di invertire la polarità dei tubi. Un gioco semplice sulla mappa dei vari circuiti di reverse flow, previsti nell’Europa centrale dopo la crisi del 2009, quando i bisticci sul prezzo tra Mosca e Kiev portarono al blocco del flusso di gas russo a tre quarti del Vecchio Continente. Il punto è che la formula sottende una strategia volta a rovesciare la geografia attuale del mercato europeo del gas. L’obiettivo è la marginalizzazione progressiva non delle forniture russe – che servono, eccome – ma del ruolo dominante di Gazprom nella commercializzazione europea del suo gas, fatta di relazioni strette e intricate con utilities europee, soprattutto dell’Est. È questo settore che ha garantito a Gazprom i più forti margini di profitto, che d’ora in poi andrebbero a spartirsi tra altri operatori non produttori, incluse le grandi aziende internazionali di marketing. Ecco perché è in atto anche il tentativo di emarginare Gunvor, colosso concepito dagli strateghi del Cremlino per commercializzare il gas russo e portare a casa i profitti complessivi del business energetico prodotto dalle proprie aziende. Da Gazprom e da Rosneft’ e ora anche da Novatek – lanciata, in partnership con Total e China National Petroleum, in un progetto di gnl alle soglie dell’Artico da esportare principalmente sui mercati asiatici. Le sanzioni Usa che hanno centrato Gennadij Timčenko, comproprietario e fondatore della Gunvor, rischiano di nuocere al prestigio della società.
Si cerca in ogni modo di tagliare gli extraprofitti di Gazprom, nonostante i ricavi maggiori vengano a Mosca dal petrolio, le cui esportazioni sono meno vulnerabili. La domanda europea di gas è critica per la Russia, che continua a connotarsi come un petrostato: Gazprom dichiara che le esportazioni di gas incidono per il 52% dei suoi ricavi, mentre quelle di petrolio, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, rappresentano il 71% dell’export globale russo.
5. La nuova geografia del marketing del gas genera equazioni complesse, con molte variabili. Vediamole partitamente, a cominciare dal perno principale: la piattaforma ucraina.
Il primo problema di Kiev è rappresentato dagli enormi consumi interni di gas che unitamente ai sussidi alle imprese costituiscono il peso principale del suo debito. Nel 2013 l’Ucraina ha consumato oltre 50 miliardi di metri cubi, di cui 30 miliardi importati, coperti sostanzialmente dalle forniture russe (28,5 miliardi). Solo 1 miliardo e mezzo di metri cubi di gas russo sono arrivati in reverse flow dall’Ungheria e dalla Germania via Polonia, commercializzati dalle rispettive aziende. Poco più di un test. Infatti, l’unica operazione importante di uso dei circuiti a flusso invertito, che può passare attraverso gasdotti ormai in disuso dopo l’attivazione del Nord Stream, è quella promossa dal commissario all’Energia Ue, che ha cercato di costruire una partnership tra la tedesca RWE, la slovacca Eustream e l’azienda di trasmissione ucraina Ukrtanshaz. La RWE avrebbe garantito una capacità di trasmissione fino a 10 miliardi di metri cubi/anno fino al 2017, da accrescere nel tempo con collettori ad hoc.
L’operazione oggi si ripropone con un duplice obiettivo, che c’entra poco con la necessità di aiutare l’Ucraina a diventare meno dipendente energeticamente da Mosca. Tanto per cominciare i consumi interni ucraini dovranno ridimensionarsi sensibilmente, dopo il giro di vite imposto dal Fondo monetario internazionale nel recente accordo con Kiev. Si prepara l’aumento del 50% delle tariffe interne del gas, a partire da maggio. Farisaicamente si è dato ampio risalto, in questo quadro, alla necessità di «tutelare le situazioni più vulnerabili».
Si tratta in realtà di garantire a Kiev flussi controllati di gas russo proveniente dal Nord Stream e steccato nei depositi commerciali tedeschi, aggiunto a quello che viene direttamente da Mosca. Al tempo stesso occorre tenere alto il flusso di esportazioni russe all’Europa via Ucraina: ciò, oltre a garantire lucrosi diritti di transito a Kiev, servirà anche a rimpinguare i depositi sotterranei del network ucraino (quelli predisposti dall’ex Urss per ovviare a problemi climatici di trasmissione del gas dalla Siberia) che hanno una capacità di 33 miliardi di metri cubi. Sono condizioni indispensabili per cominciare a configurare un ruolo di hub alla piattaforma logistica ucraina. In vista di tale obiettivo si punta, in un futuro a medio termine, anche sullo sfruttamento dei depositi di shale gas nelle regioni occidentali del paese, dove si è installata la Chevron, oltreché in quelle orientali, dove sono in corso esplorazioni da parte della Shell. Si parla di riserve pari a 3 trilioni di metri cubi di gas, quantità che movimentate in Europa avrebbero un positivo effetto sul meccanismo dei prezzi.
È interessante notare che questa strategia cammina in parallelo con quella che Janukovyč aveva imbastito anche con la Russia. Essa risale al 2012 ed è andata avanti anche nel periodo in cui Majdan già ribolliva, fino a tutto gennaio 2014. Al presidente ucraino e al suo clan di interessi faceva probabilmente gola la prospettiva di gestire un paese che potesse assurgere a hub del gas europeo piuttosto che restare un territorio di transito utile agli interessi di Mosca. Un ufficio particolare di pianificazione energetica direttamente sotto il controllo di Janukovyč e assistito da esperti comunitari aveva già cominciato a impostare – in vista dell’accordo che l’Ue dava per scontato al vertice di Vilnius del novembre 2013 – un progetto di riforma del settore energetico nazionale volto a favorire il clima degli investimenti, in particolare delle condizioni contrattuali di production sharing con le big oil. Non solo sul continente ma anche sull’offshore della Crimea, dove la Exxon si era assicurata il rango di operatore in un consorzio in cui figurava anche la Shell, mentre ne era stata esclusa la russa Lukoil. Contemporaneamente venivano preparate le condizioni affinché la compagnia nazionale Naftohaz potesse permettere il third party access (tpa) alle sue reti di trasmissione, così allineandosi alle regole comunitarie sull’unbundling. In questo clima erano stati approntati alcuni test di reverse flow da Ungheria e Polonia, oltre che di forniture di gas russo commercializzato in Germania attraverso l’unica condotta di reverse flow che può essere attivata in Slovacchia.
Si può immaginare come Putin abbia seguito queste manovre volte a diminuire la dipendenza energetica e quindi l’influenza geopolitica del Cremlino sull’Ucraina e sull’Europa intera. Ma l’obiettivo di attirare l’Ucraina nella sua Unione doganale eurasiatica gli è apparso più importante: meglio lavorare Kiev ai fianchi. Aspettando di veder fallire le trattative con l’Ue, impossibilitata a concedere finanziamenti, se non in parallelo all’Fmi, a un governo in bancarotta e certo non propenso a riforme strutturali impopolari ad appena un anno dalla campagna elettorale presidenziale.
Se tutto fosse andato secondo le sue previsioni, il wait and see di Putin avrebbe poi dovuto permettere di coinvolgere le big oil Exxon e Shell attive in Russia, in joint-venture con Gazprom e Rosneft’ (sulla piattaforma continentale dell’Artico russo e nella Siberia nord-occidentale). Quanto al partenariato trilaterale di reverse flow cui Janukovič si era mostrato propenso, sono stati sufficienti un contratto ventennale con la compagnia elettrica slovacca a prezzi favorevoli del gas e forniture scontate alla RWE per bloccare tutta la manovra. Con gli accordi stipulati tra Mosca e Kiev il 17 dicembre 2013, che fornivano il gas russo a 268,5 dollari per mille metri cubi – uno sconto del 30% sul prezzo del mercato europeo – l’Ucraina ha cessato di ritirare anche le piccole quantità che arrivavano in reverse flow da Ungheria e Germania via Polonia. A tutt’oggi Oettinger sta faticando per convincere la Slovacchia a diventare un pivot importante della piattaforma ucraina, nonostante l’Fmi e l’Ue siano disponibili a finanziare infrastrutture di reverse flow tra i due paesi.
6. Vediamo su uno scenario più allargato come si configura il tentativo di reset dei flussi di importazioni russe sottraendoli alla gestione diretta di Gazprom. In primo luogo, per mantenere Mosca ancorata alla piattaforma ucraina occorre bloccare la mossa di Putin, legittima sul piano commerciale, tesa a preservare gli invii complessivi di gas russo solo a condizione che vengano pagate le forniture arretrate a Kiev. Su questa partita entrano in campo le garanzie Ue, con dietro l’Fmi. Il punto è che ora la piattaforma ucraina ha cambiato gestore. Sicché Ue e Fmi ne ricondizioneranno con aiuti finanziari l’assetto logistico, in qualche modo «pignorato» per tutelare i propri esborsi pluriennali. Pertanto Gazprom dovrà praticare anche all’Ucraina un prezzo in linea con quello in corso sul mercato comunitario. Ma Mosca non ha solo annullato gli sconti praticati a Kiev dal dicembre scorso e chiesto il pagamento delle bollette scadute: per ripicca, ha sparato futuri rincari provocatori, sostenendo che con la secessione della Crimea non valgono più gli accordi del 2010 fleet for gas (l’affitto della base di Sebastopoli alla flotta russa del Mar Nero in cambio di un ribasso sul prezzo del gas), che davano all’Ucraina uno sconto di 100 dollari per mille metri cubi. Il prezzo del gas russo a Kiev arriverebbe così a 500 dollari per Mbtu (mille British thermal units) contro quello praticato in Europa, che l’Ucraina potrebbe comprare, riciclato da traders europei, a 380-400 dollari per Mbtu.
Nelle richieste di Mosca valgono ovviamente questioni di principio oltre che di contrattazione. Bisogna vedere se gli interessi commerciali finiranno per prevalere. Tutto sommato, lasciando perdere i famosi 100 dollari del fleet for gas, Putin avrebbe ancora un relativo interesse a non interrompere le forniture all’Ucraina: per non mettere subito in crisi le aree orientali a maggioranza russofona che hanno industrie storicamente legate al mercato della Federazione Russa ad alta intensità di consumi energetici. Queste industrie sono destinate comunque a breve ad essere smantellate, stando almeno alle strategie dell’Fmi. Soprattutto a Mosca interessano le forniture di gas ai clienti europei, che in caso di problemi di prezzo con Kiev prevedevano vie alternative. Con i clienti del Nord Europa il problema è stato definitivamente risolto grazie al gasdotto russo-tedesco Nord Stream, entrato in funzione nel 2011. L’extracapacità del gasdotto permette poi di reindirizzare alla Germania anche la quota che ancora passa per il territorio ucraino. Così come quote aggiuntive che la Germania potrebbe provvedere a inoltrare ai paesi dell’Est europeo in maggiore difficoltà. Questo può avvenire tramite circuiti in reverse flow approntati dopo la crisi del 2009 che lasciò mezza Europa senza gas. Tali circuiti utilizzano tratti di gasdotti in disuso dopo l’attivazione del Nord Stream. Per gli altri clienti europei era in progetto il corridoio South Stream, che completava a sud la strategia di bypass dell’Ucraina, a partire dalla fine del 2015.
Nell’attuale gioco al rilancio tra sanzioni ufficiali e coperte occidentali e reazioni russe, c’è il rischio che si arrivi a uno stallo, determinato dalle difficili trattative tra Mosca e Kiev, che si sente sostenuta dall’Occidente. In tal caso il flusso del gas russo via Ucraina si arresterebbe, o forse procederebbe a singhiozzo. Grazie al Nord Stream, per i clienti nord-europei di Gazprom (Germania, Danimarca, Svezia, Finlandia, Paesi Bassi, Belgio e ora anche Regno Unito) non ci saranno particolari problemi. Lo stesso vale per la maggior parte dei paesi dell’Est, in particolare per il Gruppo di Visegrád.
Le prospettive per l’Austria, l’Ungheria, per l’Italia, per i paesi della ex Jugoslavia, ma anche per Grecia, Bulgaria e Turchia, sono invece meno rassicuranti. Venendo a mancare la carta del South Stream, per questi paesi esiste comunque una soluzione alternativa di emergenza: il gasdotto russo-tedesco (Gazprom e Wintershall) Opal, una bretella che ha una capacità di trasporto di 38 miliardi di mc/anno e permette di connettere il terminale di arrivo tedesco del Nord Stream sul Baltico con la frontiera della Repubblica Ceca. In questo modo è possibile fare arrivare ulteriore gas russo fino al circuito slovacco e poi allo snodo austriaco di Baumgarten, che serve il mercato sud-europeo. Ma poiché corre in territorio comunitario, il suo uso, che secondo le regole è aperto a terze parti, è permesso a Gazprom solo per il 50%. A dicembre la Russia ha chiesto l’esenzione dalle regole comunitarie per utilizzare la piena capacità del gasdotto, ottenendola dall’autorità di controllo tedesca. Ma Oettinger ha obiettato che il tubo deve rimanere disponibile per la Repubblica Ceca. E il 10 marzo il commissario all’Energia ha confermato di voler valutare con calma la situazione. Evidentemente si vuole lasciare aperta la disponibilità dell’Opal a invii di gas russo, già inseriti nel circuito commerciale europeo, per eventuali forniture all’Ucraina se le forniture russe si dovessero interrompere.
Inoltre, occorre considerare il problema di sicurezza connesso all’attraversamento dell’instabile territorio ucraino. Ciò porterebbe alla sospensione delle forniture russe all’Europa: il collettore si immette sul territorio comunitario slovacco passando per le regioni ucraine occidentali, le più ostili a Mosca. Dal gruppo russofobo di estrema destra Pravyj Sektor sono partite minacce di sabotaggio ai gasdotti perché «costituiscono fonte di reddito per Mosca». Paradossalmente, in tal modo gli ucraini rinuncerebbero a incassare le loro royalties pur di danneggiare i russi.
Il Cremlino non dà a vedere di aver accusato il colpo che minaccia il futuro di South Stream. Anzi, Gazprom ha dato pubblicità ai contratti per la fornitura dei tubi sottomarini (a ditte tedesche) e all’appalto Saipem per la parte di ingegneria concernente la prima sezione del gasdotto, sotto il Mar Nero. Le esternazioni dell’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni, riportate ampiamente dalla stampa internazionale, hanno invece avvalorato i dubbi sul futuro di South Stream. Così contribuendo a mettere forse una pietra tombale sul progetto che l’Eni (20%) ha portato avanti per anni in partnership con Gazprom (50%), con la francese Edf (15%) e con la tedesca Wintershall (15%).