Augusto Frasca, Il Tempo 16/4/2014, 16 aprile 2014
BRASILE 1950 – L’URUGUAY ROVINA LA FESTA
Di quella Coppa, l’immagine più efficace è quella di un popolo in gramaglie. A metà secolo ventesimo, si giocò in Brasile, dal 24 giugno al 16 luglio, dopo una sospensione di dodici anni e dopo le barbarie del conflitto mondiale. Nulla che impedisse di affidare il più elementare dei pronostici al successo dei padroni di casa. S’innalzò nel quartiere di Maracanà un magnifico stadio a pianta circolare di 160.000 posti, lo stesso che anni dopo Pelé avrebbe reso sede evocata per il millesimo gol della carriera. Si decise di dividere le 16 finaliste in quattro gruppi, senza eliminazione diretta e moltiplicando il calendario per ragioni di cassa.
Fu pessimo vaticinio, per il Brasile, che gli uomini in kilt e cornamuse, e dunque scozzesi, insieme con India e Turchia non rispondessero all’appello, riducendo uno dei gironi alla miseria di due squadre, Uruguay e Bolivia, stendendo una stupenda guida rossa ai piedi dei primi vincitori della coppa cui proprio nell’edizione del 1950 venne ufficialmente abbinato il nome di Jules Rimet, l’ideatore. Il 2 luglio, l’8-0 inflitto dall’Uruguay ai boliviani sul terreno di Belo Horizonte fu molto più di un esito scontato. Assieme alle due squadre sudamericane al girone finale ebbero accesso Svezia, cui s’era dovuta l’eliminazione dell’Italia, e Spagna, imbattuta nelle tre partite di un girone che aveva fatto registrare, al suo esordio mondiale, la scomparsa dell’Inghilterra, sconfitta sia dagli iberici sia, massima delle sorprese, da quattro dilettanti giunti d’oltre Oceano: quando il primo telex trasmise England-Usa 0-1, credendo nella sacrale ingegneria calcistica dei loro rappresentanti e quindi in un banale errore di trasmissione, nell’isola corressero in 10-1. Salvo rettificare, sbigottiti, subito dopo.
Nel girone finale, i brasiliani fecero terra bruciata, umiliando Svezia (7-1) e Spagna (6-1). A punteggio pieno, con l’Uruguay vincente sulla Svezia (3-2) ma inchiodato sul 2-2 dalla Spagna, con la garanzia che anche un pareggio sarebbe stato sufficiente per la conquista della Coppa, il Brasile affrontò la finale del 16 luglio dando il via in anticipo ai festeggiamenti, divenuti delirio quando al 47’ Albino Friaca Cardoso violentò la porta di Roque Gaston Maspoli. Diciannove minuti, e la freddezza di Juan Alberto Schiaffino, fuoriclasse come pochi, riequilibrò le sorti. Altri tredici, e un’invenzione di Alcide Ghiggia chiuse l’incontro. Avremmo ritrovato i due in Italia, il primo nel Milan degli scudetti del ’55, ’57, ’59 e poi nella Roma, il secondo nella capitale dal ’53 al ’61. Quanto accadde al triplice fischio di George Reader è in gran parte noto. La mitologia ha aggiunto del suo. Le cronache riferirono di dieci morti d’infarto, di più di un imbecille suicida, del lutto nazionale decretato dal Governo: un’apocalisse, una paranoia collettiva, una sindrome calcistica nata mezzo secolo prima, nel 1894, quando Charles Miller, uno studente di San Paolo, tornò dall’università di Southampton con due palloni e in tasca le regole del gioco.
E l’Italia? L’Italia era partita male, letteralmente. Preda psicologica della tragedia aerea che sulla collina di Superga aveva l’anno prima spazzato il Torino, si decise, e fu decisione di rara dabbenaggine, di viaggiare su nave, quindici giorni di traversata sul piroscafo Sises dal 4 al 19 giugno, sosta a Las Palmas l’8, in pratica unico allenamento in due settimane, arrivo a Santos tra l’euforia degli emigrati italiani.
Uscito Vittorio Pozzo dal giro, la nazionale era guidata da una commissione tecnica presieduta da Ferruccio Novo, costruttore del Grande Torino, affiancato da Roberto Copernico, da Aldo Bardelli, giornalista di Stadio, il quotidiano sportivo bolognese in vita da cinque anni, e da Vincenzo Biancone, allenatori Luigi Ferrero e Mario Sperone.
Fu una miscela malmessa di scarsa preparazione, precarietà legate alla lunghezza del trasferimento, indecisioni tattiche, modesta confidenza tra le individualità selezionate, quella con cui il 25 giugno azzurri stralunati affrontarono la Svezia a San Paolo. Segnarono per primi e ultimi, due ali, Riccardo Carapellese al 7’, Ermes Muccinelli al 75’, ma la Svezia, con tre reti, due delle quali marcate da Hans Jeppson, fece di meglio, rendendo nulli i convulsi tentativi di recupero dei nostri attaccanti. L’attaccante svedese diverrà famoso due anni dopo per l’ingaggio di 105 milioni versato dall’imprenditore e sindaco Achille Lauro per il Napoli, una quotazione che nell’irripetibile fantasia partenopea fece immediatamente scattare l’identificazione del giocatore nel Banco di Napoli. A nulla servì, il 2 luglio, il 2-0 con cui Carapellese ed Egisto Pandolfini addormentarono un modesto Paraguay. Al rientro, vincitrice nel 1949-50, la Juventus fu costretta a cedere lo scudetto a un Milan ingigantito da uno dei terzetti più celebrati del calcio, gli svedesi Gunnar Gren, Gunnar Nordhal, Nils Liedholm.