Raffaela Carretta, IoDonna 12/4/2014, 12 aprile 2014
UN CAPODANNO DI PERFETTA FELICIT
ALLA FINE della chiacchierata con Innocenzo Cipolletta, nella casa romana che divide con la terza moglie, viene da pensare che l’oggetto più rappresentativo, quello che spiega meglio questo signore di 72 anni col ciuffo ribelle e il sorriso laterale, è un quadro: c’è un esemplare dalmata al centro di una piazza italiana, davanti a una cabina telefonica gialla. È solo contro un cielo color ferro, immobile in un paesaggio immobile, come un re silente. E certo sta per piovere, ma il cane fissa dritto lo sguardo, senza paura né inquietudine. Quando l’acqua cadrà lui sarà pronto ad accoglierla. Cipolletta è presidente di UBS Italia e dell’Università di Trento, ha da poco pubblicato il pamphlet In Italia paghiamo troppe tasse. Falso! (Laterza). Ha una faccia pubblica che s’intreccia con una parte fondamentale della nostra storia economica: sempre raccontata smussando le punte d’orgoglio o gli eccessi d’ombra, lineare come una sequenza di numeri. Gli studi di statistica: “Un modo per acchiappare l’ossatura del mondo. Magari è un’illusione. Si dice: ci sono i peccati mortali, quelli veniali e poi le statistiche...”. L’esperienza da alto funzionario pubblico: “Avevo lavorato con Ciampi, dovevo diventare segretario della programmazione al ministero del Bilancio, ma mi dissero che doveva andarci un altro, appoggiato dai socialdemocratici”. Gli anni in Confindustria: “C’era Tangentopoli e un’inflazione galoppante. Con Pininfarina e poi Abete prendemmo decisioni storiche per salvare il Paese. Nel ’92 accettammo una patrimoniale sulle imprese, osteggiata dagli industriali, in cambio dell’abolizione della scala mobile, concordata con Marini, Benvenuto e Trentin: che per questo si dimise”. Eppure, in una vita ricca di avventure e soggetta al saliscendi del potere, è nel lato privato della storia che c’è la giravolta capace di mandare tutto all’aria. Qualcosa che rimane come la scia permanente di un vecchio dolore, sopito ma non dimenticabile. “Fin da bambino ho avuto chiara una cosa: ero attaccato alla mia famiglia, ma la vita era fuori, e lì bisognava andare”. Due sorelle più grandi, madre dirigente al ministero dell’Agricoltura, padre magistrato alla Corte dei conti: “Il bene pubblico era il suo mantra. Esaminava le domande dubbie di risarcimento per danni di guerra. E litigò con il fratello parroco perché gli inviava troppi casi umani: per un bel pezzo non vedemmo più nessuno della famiglia. Allora la povertà era plateale, in giro c’era gente storpia, coperta di stracci. Noi eravamo benestanti, ma non giravano soldi. La tv è entrata in casa nel ’59, il frigo pure. E d’estate si andava a Cattolica, alla Pensione Emma”. Un’Italia bianca e nera. Dove il colore era tutto nel futuro, come una nuvola mutevole che un giorno avrebbe sprigionato le tinte pastello coperte dal grigio. “La mia generazione è stata fortunata. Eravamo giovani, la crescita sembrava illimitata, il mondo aspettava solo noi”. Cipolletta è al terzo anno d’università quando va alla Comunità europea per uno stage. “Era quello che avevo inseguito da sempre. Adesso fa ridere, ma per noi Bruxelles era l’altro capo del mondo. Mia madre in lacrime, il viaggio di sei ore, lo shock della tartare di carne cruda al posto della fettina di casa”. E un apprendistato veloce alla tolleranza perché lo sguardo degli altri dubita di te, sei diventato altro, un immigrato. “Quella volta che in Svizzera il treno si ruppe e ci chiusero a chiave per ore, senza poter usare la toilette: temevano che scappassimo per diventare clandestini. E quell’altra a Bruxelles, davanti a un locale, con il buttafuori che mi sbarra la strada: niente arabi! Guarda che sono italiano. E lui: ah scusa, pure io”. Nel ’62 la città è a prova di romanticismo. Fuligginosa per il riscaldamento a carbone, nevosa da ottobre ad aprile: ma non è di una cornice accattivante che ha bisogno l’amore per nascere, soprattutto se è il primo. “Annie, francese, era tra i ragazzi dello stage: un eccitante concentrato di lingue e abitudini diverse. Lei abitava a Nizza, e lì ci sposammo l’anno successivo. Per i miei, un fatto stravagante. Io avevo 22 anni”.
A raccontare ora quel periodo, è come se non ci sia tempo da sprecare rispetto all’evento che risucchia ogni ricordo. Mancano da spendere le parole in più e il pudore può dirle solo se le spoglia, solo inchiodandole ai fatti. “Nel ’66 nasce Luca e a poca distanza Hélène e Chloé. Ma pian piano qualcosa s’inceppa. Mia moglie comincia a non trovarsi bene, emotivamente sta male. Nel ’77 decide di tornare a Parigi per un po’, lasciando i bambini a Roma. E lì accade: un giorno torno a casa e la trovo deserta. Capisco che i figli li ha portati via lei. Mi precipito in Francia, assumo un’avvocata, e intanto passano quattro lentissimi mesi senza sapere dove stanno. Poi, un giorno, l’incubo finisce: eccoli davanti a me, li stringo forte e mi sembra impossibile... Decido subito di rinunciare a qualsiasi atto di forza, e di sottomettermi al giudizio del tribunale”.
In due anni lo Stato francese celebra il divorzio – quello italiano, “totalmente assente”, ne impiega sette – e il giudice, una donna, stabilisce l’affidamento al padre, “in via provvisoria”: significa accettare di essere costantemente sottoposti al controllo “con gli assistenti sociali che piombano in casa”. Altri due anni sotto schiaffo, dove da genitore non puoi permetterti gli errori che i genitori fanno, in una realtà dolente, con le ferite aperte, ancora esposte al trauma. “In tante giornate mi chiedevo: da dove si comincia per rendere normale una cosa che non lo è? I bambini avevano sofferto moltissimo, erano stati sradicati, avvertivano la mancanza della madre. Nei primi drammatici mesi hanno avuto momenti di rifiuto, io non mi sentivo all’altezza, ero pieno d’incertezze. E cominciata tutta un’altra vita complicata. E bellissima”.
Negli anni seguenti, mentre fa il padre single, Cipolletta capisce “l’abissale differenza con le madri. Intorno sentivo ammirazione, nessuno pensava mai: perché è così egoista da fare carriera, anziché stare con i figli? I sensi di colpa, enormi, venivano solo da me”. Ora che è diventato nonno (una figlia fa l’etologa, si occupa di gorilla in Africa), Cipolletta ricorda soprattutto certi weekend incasinati.
“Cucinavamo insieme, si faceva la lotta a cuscinate, casa nostra era sempre aperta ai loro compagni. All’inizio, tra i miei amici, c’era stata la gara: ti aiutiamo noi! In capo a poco ero io a tenere i ragazzi degli altri. Il massimo fu un Capodanno con sciami di bambini eccitati, e le fiammelle accese ai rintocchi della mezzanotte. Solo dopo, alla spicciolata, si sono visti i primi genitori. E lì mi è apparso chiaro che me lo sarei ricordato per sempre, che quello era un momento perfetto, un momento di felicità”.