Fabio Scacciavillani, Il Fatto Quotidiano 16/4/2014, 16 aprile 2014
CINA. LA FINANZA OMBRA CHE DROGA LA CRESCITA
A quasi sette anni dal fallimento di Bear Stearns, la Sarajevo della Grande Recessione, mentre l’economia globale arranca su un impervio sentiero di normalizzazione, la coltre di silenzi ufficiali non riesce a ovattare sussurri e grida dai grattacieli di Shanghai e dai corridoi di Pechino su un “sistema bancario ombra”, composto da trust companies (fiduciarie) opache, senza controlli e malgestite. Dato che i depositi bancari offrono tassi irrisori perché compressi dalla Banca del Popolo, queste fiduciarie attirano i risparmiatori promettendo rendimenti allettanti in tempi di inflazione pronunciata che maciulla il capitale. I fondi, raccolti fin nelle province remote, spesso finanziano palazzinari in bolletta, aziende pubbliche alla canna del gas (le miniere di carbone) e direttamente o indirettamente autorità locali disinvolte. Sul fenomeno governo e Banca centrale avevano sostituito saracinesche alle palpebre, illudendosi che la crescita impetuosa, a cui le fiduciarie fornivano propellente, avrebbe mondato le conseguenze nefaste. Ma gli steroidi macroeconomici da investimenti sballati (pubblici o privati) si sciolgono sempre in una valle di lacrime e la Cina del laissez-faire comunista non fa eccezione. Persino il Fmi (di solito tenero con la Cina) ha avvertito che gli attivi marcescenti vanno rimossi e le catene di Sant’Antonio spezzate. Le autorità da qualche mese hanno intrapreso l’ingrato compito. Che però confligge con un vincolo psico-politico pavloviano. Appena la crescita del Pil si sgonfia verso il per cento (cifra ufficiale, quella reale sarebbe sotto il 5) ai ministri cinesi appare lo spettro delle rivolte. Quindi parte un’altra ondata di credito allegro che genera altri prestiti dubbi, altri immobili vuoti, altra capacità industriale obsoleta, altre infrastrutture costose. A fine 2013 si stimava a 1800 miliardi di dollari il totale degli attivi delle trust companies. Per quanto la cifra sia astronomica, la Cina ha riserve valutarie per 4 mila miliardi di dollari e potrebbe in teoria affrontare una crisi di questa portata. Ma il grosso di queste riserve sono detenute in titoli del debito pubblico Usa. Se da Pechino a New York può deflagrare il battito d’ali di una farfalla, figuriamoci una batosta di questa portata.
Fabio Scacciavillani, Il Fatto Quotidiano 16/4/2014