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 2014  aprile 16 Mercoledì calendario

«IO, GESU’ SULLA CROCE DA QUARANT’ANNI»

Seduto in camerino davanti a uno specchio, Ted Neeley, l’unico, autentico Jesus Christ Superstar della storia, si fa quietamente incipriare il volto pieno di rughe prima di affrontare i lampi dei fotografi e lo sguardo dei giornalisti.
È a Roma, dove venerdì prossimo torna a fare Gesù.
Torna a fare Gesù a più o meno 40 anni dall’apparizione del celeberrimo film che Norman Jewison trasse dall’opera rock di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber e a 20 anni dalla prima edizione che Massimo Romeo Piparo portò in Italia e adesso ripropone al «Sistina». Con lui, stavolta, nel ruolo di Giuda, al posto del mitico Carl Anderson, c’è il debuttante Feysal Bonciani, ragazzo fiorentino dalla pelle nera, mentre Shel Shapiro è Caifa e Simona Molinari Maria Maddalena. A eseguire le musiche, musiche che tutti, ma proprio tutti, conoscono, i «Negrita», primo gruppo rock a misurarsi col musical.
Nessuna tournée dopo Roma (in programma fino a inizio giugno), solo una serata, il 12 ottobre, all’Arena di Verona. Capelli e baffi tinti di un biondo dorato, sguardo celestiale come rapito in un altrove misterioso, statura media ma muscoli efficienti, Ted Neeley parla con un filo di voce, lentamente, scandendo frasi banalmente rasserenanti, come se fosse ancora un Figlio dei fiori, uno di quei ragazzi che al grido di «Peace and love» marciavano contro la guerra del Vietnam. Ha appena inciso un nuovo EP, «Rock Opera», in esclusiva su iTunes poi in vendita, e ci tiene moltissimo a farlo sapere.
Non si è stancato, dopo tanti anni, di fare ancora Gesù e finire appeso su una croce?
«Tutt’altro. Per me ogni volta è una esperienza spirituale. Ne esco rafforzato».
Non dica che si sente davvero un po’ Gesù.
«Quando canto e recito, avverto come una illuminazione dentro di me, poi lo spettacolo finisce e torno ad essere quello che sono».
Il pubblico, però, continuerà a considerarla un po’ come Gesù.
«Molti vogliono essere abbracciati e io li abbraccio. Ormai sono tre generazioni che vengono a vedermi: padri, figli e nipoti. Le donne incinte chiedono che io benedica il loro bambino e io lo faccio. Un appassionato di questo musical sostiene che lo avrei guarito dal cancro, ma non ci credo. Io sono un ex ragazzo del Texas che suonava la batteria e sapeva anche un po’ cantare».
Come è cominciata la sua carriera?
«In famiglia cantavano tutti: mamma, mio fratello, mia sorella, mentre papà suonava l’ukulele come Marilyn in “A qualcuno piace caldo”. Avevo messo su una band con cui mi ero trasferito in California, ma la guerra del Vietnam ci costrinse a scioglierci. Per caso, a guerra finita, accompagnai degli amici alle audizioni di “Hair”: mi costrinsero a esibirmi anche se non volevo e fui preso, con mia grande sorpresa. A “Jesus Christ Superstar” sono arrivato come sostituto del titolare Gesù nella prima edizione del musical, accanto al mio carissimo amico Carl Anderson che faceva Giuda. Il regista Jewison ci volle in coppia nel suo film anche perché eravamo molto affiatati».
I suoi figli la rispettano più come padre o come alter-ego di Gesù?
«Credo di essere un buon padre e comunque ho due magnifici figli che lavorano nella mia società. Mia figlia è venuta con me a Roma, ma arriveranno tra poco anche mia moglie e il mio figlio maschio. Spero tanto di poter esser ricevuto in udienza da papa Francesco. Ho già fatto la richiesta. E comunque sono orgoglioso di proporre questa versione di “Jesus Christ” nell’anno della santificazione di Giovanni Paolo II».
E’ molto religioso, lei.
«Lo ero anche da piccolo. Ma la mia spiritualità è stata rinforzata da questo musical. Credo, però, che perfino un ateo convinto avrebbe cominciato a credere in un dio creatore, se avesse lavorato qua. Anche mia moglie l’ho incontrata sul set di Jewison in Israele: era una delle ballerine. L’ho preso per un segno del destino».
Non l’è mai venuta la tentazione, per una volta, di impersonare un diavolo?
«Mai. Assolutamente mai. Sentire il coro che intona “Jesus Christ, Jesus Christ” quando entro in scena mi dà una carica incredibile. Non è solo un inno alla religione cristiana: è un inno alla fede in Dio, valido per tutta l’umanità».
Cosa rappresenta il suo Gesù?
«La bontà, la dolcezza, l’onestà , la speranza. Lui è il figlio di Dio, ma è soprattutto un uomo che vuole insegnare l’amore agli altri uomini».
Di cosa va più fiero, oltre che di questa opera rock?
«Del film che ho interpretato per la tv da “Uomini e topi” di Steinbeck».
La sua gioia più grande?
«La mia famiglia».
E il dolore più grande?
«La morte per leucemia di Carl Anderson. Con lui ho condiviso tutto, compreso un tour per gli Stati Uniti che è andato avanti dal 1992 al 1997 con 1700 repliche, il più duraturo dei tour americani».
Dopo Roma dove va?
«Potrei fermarmi a Roma. La città è bellissima e si mangia molto bene».
Dove ha mangiato meglio?
«A casa della mia interprete: aveva cucinato sua madre».
Non ha altri impegni?
«Ma sì, certo. Devo promuovere il mio “Opera rock”, che contiene anche un duetto registrato, anni fa, con Carl Anderson, riprendere per i 40 anni dal film “Jesus Christ Superstar”, starmene per un po’ a casa mia, in California, vicino Santa Barbara. E’ un posto piacevole con il mare davanti, lontano da Hollywood e dall’industria dello spettacolo. Ci sto volentieri».