Francesco Bonami, La Stampa 15/4/2014, 15 aprile 2014
LA BOLLA DELL’ARTE? FORSE STA GIÀ ESPLODENDO MA NON CE NE ACCORGIAMO
[Intervista a Maurizio Cattelan] –
Riservato Maurizio. Così si legge su un cartellino appoggiato su un tavolo per due al ristorante Carpaccio di Milano, quartier generale del Maurizio più famoso del mondo dell’arte: Cattelan. Lo incontro per farmi raccontare meglio la notizia dell’anno, ovvero il suo ritorno ufficiale sul palcoscenico dell’arte contemporanea. Tre anni fa aveva annunciato il prepensionamento chiudendo la carriera con lo strepitoso successo della mostra al Guggenheim Museum di New York, la più visitata nella storia del museo dopo quella di Kandinskij. Conoscendo Cattelan pochi avevano creduto a questo ritiro. Eppure sembrava vero. Anziché produrre opere d’arte, Cattelan aveva deciso di concentrarsi esclusivamente sul suo hobby preferito, la rivista Toilet Paper , oggi un mito nel mondo dell’editoria, della moda e della pubblicità.
Adesso però le sirene dell’arte con la A maiuscola lo hanno conquistato. Ma Cattelan non torna come artista, bensì come curatore. Lo ha convinto Sarah Cosulich, la direttrice di Artissima, fiera schiacciata fra le potenti aste d’arte contemporanea autunnali, il colosso di Frieze a Londra e con il fiato sul collo della vicina Miart. Una manifestazione alla disperata ricerca di qualcosa che la renda unica. Con Cattelan a bordo, Artissima cala un asso eccezionale. «One Torino», la mostra parallela alla fiera, il prossimo novembre, sarà dunque a cura dell’artista padovano, aiutato da due giovani curatrici, come aveva fatto nel 2006 per la Biennale di Berlino, unica sua esperienza indossando un cappello diverso da quello di artista. Con una giacca vistosamente gessata su una camicia a quadrettini rossi da hipster, Cattelan, arrivato dalla quotidiana nuotata in piscina, ha una fame da lupo e sembra entusiasta della nuova sfida.
Ti mancava creare arte? Consideri questa mostra un primo passo verso il rientro in pista come artista?
«Cerco sempre di non guardare troppo avanti e preferisco concentrarmi su un unico progetto. Il mio motto è: non guardarti indietro, a meno che tu non voglia andare in quella direzione».
Una mostra sulla pittura. Tu che pittore proprio non sei. Oppure sei un criptopittore. La sera fai acquerelli, confessa!
«Non so tenere una matita in mano, figuriamoci un pennello! Abbiamo appena iniziato a lavorarci, ma sono certo che non sarà una mostra tradizionale sulla pittura: quello è solo uno dei perimetri con il quale ci stiamo misurando, assieme a Torino e nello spazio di Palazzo Cavour dove si terrà la mostra. Sarà un dialogo tra la pittura e qualcosa di altro».
Avevi curato la Biennale di Berlino con Gioni e Subotnik durante un anno sabbatico, adesso esci dal prepensionamento di nuovo come curatore. Il riposo ti fa bene o male?
«A me fa benissimo, non so se faccia bene a chi viene a visitare le mie mostre! Ho sempre preferito fare progetti simili a questo, in gruppo, credo che il confronto sia una parte fondamentale del lavoro. Anche in questo caso non sarò da solo, oltre a me ci sono Myriam Ben Salah e Marta Papini. Nessuno di noi si considera un curatore in senso stretto, speriamo che questo ci permetta di correre più rischi».
Essere curatore ti aiuta a capire meglio cosa fare?
«Pare che certe aziende, per trovare soluzioni più innovative ai problemi, facciano scambiare periodicamente i vari dipartimenti. Ogni sei mesi i dipendenti devono ricominciare daccapo, senza specializzarsi mai davvero. Ecco, sto cercando di attuare lo stesso principio. Non voglio morire esperto di qualcosa, voglio continuare a imparare: la tomba sarà il mio diploma».
Perché Torino per questo rientro e non una città più al centro del mondo dell’arte, Londra, New York o Parigi?
«Non è stata una scelta calcolata, mi ha invitato Artissima per il progetto One Torino, e dopo un paio di sopralluoghi abbiamo trovato molti spunti interessanti. Diciamo che Torino è stata fondamentale per convincerci ad accettare… e poi il fritto misto non lo trovi né a Parigi, né a Londra, né a New York!».
Un tempo avevi ottimi rapporti con Ida Gianelli: come lo vedi il Castello di Rivoli oggi?
«È vero, Ida è stata la prima temeraria a invitarmi a fare una mostra in un museo. Rivoli è sempre stato un punto di riferimento nell’ambito museale italiano, ma è un po’ che non ci vado, in bicicletta è un po’ lontano».
Perché alla fine della giornata il quadro, un giorno sì e un giorno no dato per morto, rimane il tipo di espressione artistica più desiderabile?
«È una domanda che mi faccio spesso, ma per ora rimane un mistero senza risposta… ti farò sapere se la troverò alla fine della mostra».
Dopo aver curato questa mostra tornerai a produrre la tua arte?
«Questa invece è una domanda con una risposta certa, ma non te la dico per non rovinarti la sorpresa».
Di cosa ha bisogno l’arte italiana?
«Probabilmente di politiche non politiche che la sostengano seriamente a livello istituzionale, ma soprattutto di essere libera dal fantasma della nazionalità. Anche Little Italy a New York non è più di moda, anzi è scomparsa, ma non sono mica scomparsi gli italiani».
Hai già un titolo per la mostra?
«No, ma abbiamo trovato un ritornello negli archivi di un famoso museo torinese: “Il passato mi ha fregato, il presente mi tormenta, il futuro mi spaventa”. Ormai ci è entrato in testa, lo canticchiamo spesso».
È cosi che ti senti?
«A me il passato spaventa ancora anche se non posso proprio farne a meno. Spero che le fregature non siano dietro l’angolo. Il presente mi accontenta».
Che rapporto hai con il visitatore di una mostra?
«Il pubblico è sempre metà dell’opera, o della mostra. Un’opera deve essere vista per esistere, come il famoso albero nel bosco che nessuno sente cadere: è come se non esistesse. Allo stesso modo, l’opera c’è nel momento in cui qualcuno la osserva e la interpreta secondo il suo punto di vista».
Pensi che sia possibile oggi per un giovane artista prescindere dal mercato?
«Mi sembra piuttosto il contrario: è il mercato che non può prescindere dai giovani artisti, ormai… come ogni mercato, anche quello dell’arte avrà il suo Gordon Gekko. Sui giornali si parla sempre più spesso di art bubble e forse all’orizzonte già si intravede l’esplosione. Ma forse sta già esplodendo, come l’universo, da un po’, e noi non ce ne accorgiamo».
Io penso che l’arte contemporanea sia stato un movimento della storia dell’arte come il Barocco o il Rinascimento e adesso abbia concluso il suo ciclo. Tu che ne pensi?
«Sicuramente un ciclo è finito, se sia quello dell’arte contemporanea o il mio devo ancora scoprirlo. Dall’orinatoio di Duchamp a oggi abbiamo visto una serie di gesti artistici che hanno risposto ad altri gesti, una catena di sant’Antonio. Ora la gente però non cerca più gesti ma storie: forse è tornato il momento di ricominciare a raccontare con l’arte nuove storie».
Francesco Bonami, La Stampa 15/4/2014