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 2014  aprile 15 Martedì calendario

TRAMONTA L’ERA SCARONI: PAGA L’ASSE CON PUTIN


All’Eni faccio il lavoro più bello del mondo», amava ripetere Paolo Scaroni, classe 1946. Il lavoro più bello del mondo lo aveva cominciato il 16 maggio del 2005, all’inizio del terzo governo Berlusconi. Ed è finito ieri, sotto il primo governo Renzi. E pensare che, da vecchia volpe, Scaroni si era mosso per tempo. Il 14 febbraio Enrico Letta si è appena dimesso. Scaroni va da Bloomberg Tv e del futuro premier dice un gran bene. «Ha impeto, è davvero una persona che vuole riformare il Paese e riformare il Paese a volte non equivale a essere popolari ma quando si vuole qualcosa davvero si è già a metà strada». Poi l’immancabile domanda sulla sua riconferma: «Certo che sono disponibile!». Renzi lo sarà meno, disponibile.
I mondi tra i due, del resto, sono distanti. Per storia remota: quella di Scaroni ha le radici nella Prima Repubblica – cui paga un tributo assai elevato, con l’arresto nel’92, nel pieno di Mani Pulite – riprende con una lunga parentesi all’estero, dove diventa ad della britannica Pilkington, fino ad arrivare all’Enel dove Berlusconi lo nomina ad nel 2002. Ma anche per storia più recente: quel legame privilegiato tra l’ad dell’Eni e la Russia di Putin – un’eredità storica, ha sempre sostenuto Scaroni, visto che fin dai tempi di Enrico Mattei il cane a sei zampe era molto affezionato a Mosca – cresciuto negli Anni 2000 sotto l’occhio affettuosissimo di Silvio Berlusconi è almeno da sei anni assai indigesto per gli Stati Uniti. Proprio su questo giornale, nel 2009, Maurizio Molinari aveva raccontato l’insofferenza dell’Amministrazione Obama per i rapporti della nostra azienda con la russa Gazprom e per il sostegno dato dall’Eni al gasdotto South Stream, che secondo fonti Usa rischiava «di trasformare l’Italia nella nuova Ucraina d’Europa, totalmente dipendente dal gas di Mosca». E nell’aprile del 2008 l’ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli mandava a Washington messaggi preoccupati, segnalando come l’Eni stesse aprendo i suoi giacimenti nordafricani sempre ai russi di Gazprom. Tanti timori che proprio negli ultimi mesi, con l’avanzare della tensione tra Russia e Ucraina e il duro faccia a faccia tra Obama e Putin si sono concretizzati, contribuendo ad aumentare il grado di insoddisfazione degli Usa nei confronti dell’Eni a gestione Scaroni.
Di fronte alle critiche lui replica con un numero: 61. In finanza lo chiamano Tsr. Non c’entra nulla con il trattamento di fine rapporto (quello sarà trattativa dei prossimi giorni), è il ritorno totale per gli azionisti: da che è arrivato ha battuto, col 61% appunto, tutti i concorrenti europei, la cui media è del 53%. Altro suo cavallo di battaglia di questi anni è stata la divisione Esplorazione e Produzione. Che negli ultimi 6 anni ha individuato nuove risorse per 9,5 miliardi di barili, due volte e mezzo l’intera produzione nello stesso periodo. Merito suo e di quel Claudio Descalzi che - suo delfino - lo andrà a sostituire. Un periodo, va detto, mica facile, quello di Scaroni. Ha dovuto affrontare multiple crisi del gas tra Ucraina e Russia, la primavera araba, la fine di Gheddafi. E l’Algeria, punto dolente. Pesa infatti l’inchiesta su presunte tangenti versate per appalti dalla controllata Saipem per cui dichiara l’estraneità sua e del gruppo. Più recente la condanna, in primo grado, a tre anni per reati ambientali in relazione alla gestione della centrale Enel di Porto Tolle. Nel poker con Renzi, l’ultima carta se l’è giocata sulla credibilità internazionale delle nomine, puntando su «un piano di successione, così come avviene all’estero». Nulla da fare. L’epilogo al Colle, da Napolitano. Col Capo dello Stato parla della «situazione degli approvvigionamenti energetici per l’Italia e per l’Europa». Fino a qualche tempo fa, quando i giornalisti gli chiedevano cosa ne pensasse della possibilità di andare alle Generali, lui rispondeva che no, non era interessato, «faccio il lavoro più bello del mondo». Cosa risponderà ora?

Francesco Spini, La Stampa 15/4/2014