Paolo Madeddu, RollingStone 11/4/2014, 11 aprile 2014
ARDORE DISPERATO
[Nada]
LE DOMANDE su quando, 16enne, a Sanremo cantava Pà diglielo a mà con un altro teenager a nome Ron, cadono nel vuoto. E anche quelle su Amore disperato, una delle 10 vere smash-hit italiane degli anni ’80. «...E che dovrei dire?», domanda, polverizzando gentilmente qualsiasi velleità di mitizzazione pop del personaggio, ma anche delle epoche e delle esperienze che ha attraversato. Nada popstar, Nada attrice, Nada artista indie, Nada scrittrice e poetessa di una natura femminile misteriosa, quasi primordiale. Non riusciremo mai a inquadrarla, Nada Malanima da Gabbro, provincia di Livorno. E peraltro, non è che la circostanza sembri preoccuparla molto.
Tu non racconti volentieri dei tuoi anni nella musica leggera, vero?
No. Mi piace guardare avanti. Non capisco perché, in occasione di un disco che ho fatto oggi, mi si fanno domande che riguardano cose di 40 anni fa. Sono cose che ho fatto: non le rinnego, anzi. Ma a me interessa ciò che sono oggi. Cosa posso dire di Ma che freddo fa? Avevo 15 anni, mi hanno portata a Sanremo, me l’hanno fatta cantare. Capivo a malapena cosa mi stava succedendo.
È che siamo negli anni della retromania. Il passato è la nostra principale fonte di meraviglia e ispirazione.
Guardare al passato è rassicurante. In fondo, il futuro è più incerto che mai.
Però c’è anche il fatto che non hai mai realmente raccontato quel periodo. A differenza del tuo periodo precedente: l’infanzia, la famiglia, il paese, prima della fama.
Ho parlato del mio passato di bambina nei miei libri, e nei monologhi del tour Musicaromanzo. È il mio percorso interiore, di crescita. Il percorso artistico è un’altra cosa, inizia con una fase su cui ho poco da dire perché io stessa non l’ho capita bene.
Il successo enorme avuto da ragazzina non è stato traumatico?
L’ho “subito”, diciamo così...
Oggi si ritiene che ogni 15enne sogni la popolarità che avevi tu.
Non so se sia davvero così. So solo che io non la cercavo e non la capivo. Poi, visto che ero lì, ho gradualmente preso coscienza di quanto volevo fare e ci sono stati dei cambiamenti. Ho fatto altre cose, percorso altre strade. Complicando le cose a chi voleva vedere in me ancora la ragazzina di Sanremo. Il futuro intimorisce la gente. Ma il cambiamento la intimorisce ancora di più.
Un cambiamento decisivo è avvenuto col sodalizio con Piero Ciampi.
Siamo stati per anni insieme – non come amanti, come amici – ed era impossibile non sentire la sua personalità. Ho iniziato a scrivere canzoni dopo aver fatto l’album con lui. Non è che l’ho copiato: non si può fare, è impossibile. Ma so bene di avere una sensibilità simile alla sua. A tutti e due piaceva arrivare al fondo delle cose, alla verità: raccontarsi senza mezze misure, senza preoccuparsi di nulla pur di avere qualche risposta, trovare un filo per comunicare con gli altri. Penso che in questo disco ci sia ancora qualcosa della sua influenza: direi proprio nel brano Occupo poco spazio, che dà il titolo all’album, e che si riferisce a quanto dicevo prima circa il conoscersi. Io, sin da quando ero piccola, penso di occupare poco spazio in un mondo in cui c’è di tutto e di più. Ma quel piccolo spazio che ognuno di noi occupa è un mondo intero: è da lì che nasce questa rete di sentimenti e relazioni che avvolge il mondo e ci lega tutti.
Tutti?
Sì, io penso che – anche se siamo miliardi – le nostre piccolissime vite creano una specie di onda. Qualcuno di noi si crede più grande, qualcuno invece si sente perso. A me capita davanti al mare, o a un tramonto, o nei boschi: mi chiedo che cosa sono io in questa meraviglia.
Nel tuo album non c’è solo meraviglia. In effetti si apre con i versi: “Mi attengo alle regole di un silenzio mortale che taglia la mia anima”. E si chiude con: “Sulle rive di un fiume di sangue ci si lavano i dolori”.
Eh...
In compenso, nel singolo canti: “Forse mi hai lasciato come un fiore sulla tomba di un mondo che muore”.
Hahaha! Va bene, capisco cosa vuoi dire.
Mi aspettavo che avresti riso. Perché tu di persona non dai questa sensazione di cupezza, anzi.
Spesso mi meraviglio io stessa quando scrivo... È che le parole, quando stanno dentro di me, respirano, poi vengono fuori senza preavviso. Di persona credo di essere abbastanza allegra, per quanto contraddittoria, come la maggior parte di noi del resto. Sono attratta dagli aspetti drammatici, dolorosi: perché è lì che c’è dentro la vita, i sentimenti. È quello che mi piace raccontare. Ma, in definitiva, essere coscienti delle cose, senza farsi sconti, è sempre una cosa positiva. E una chiave per affrontare il mondo.
Dal punto di vista musicale il disco parte in una maniera complessa, e finisce in modo più disteso. C’è anche qualcosa che potremmo chiamare “rock”.
Questo disco è diverso dagli ultimi. Ad esempio: erano anni che non usavo un’orchestrazione, per quanto quella allestita qui per l’occasione sia evidentemente minimale, non classica. Per i pezzi di apertura, mi sono fatta prendere da certe atmosfere oscure di violoncello e fiati, per poi via via andare a stemperare con quadretti più semplici.
Rimane il fatto che il futuro e il presente che tratteggi nel disco non sono molto incoraggianti.
L’intima festa, il singolo, parla del funerale di questi “anni che non si legan bene”. Non sono mai stata interessata a fare canzoni sull’attualità: già se ne parla tanto, ne siamo inondati. Mi interessa di più quello che succede dentro una persona. Ma proprio da questo punto di vista, oggi è difficile ignorare l’atmosfera che ci circonda: il malessere, questa fatica che ci attanaglia tutti... È un momento di cambiamento storico. Ripartiremo, rinasceremo sicuramente, ma intanto il fondo da toccare non arriva mai. Abbiamo fatto un bellissimo video su L’ultima festa, comunque. Penso che farò un po’ di video da queste canzoni, sono una grande appassionata di cinema.
Hai dei registi preferiti?
Bergman e Kubrick. Ogni loro film è una seduta di psicanalisi. Ovviamente per i miei video non mi pongo modelli così ambiziosi, però sto pensando a qualcosa di sperimentale. Sono sempre stata un’ammiratrice di Laurie Anderson. Mi ricordo quando uscì il suo film-concerto, Home of the Brave: la gente era sbalordita, molti la trovavano terribile, i più gentili dicevano che sembrava un cartone animato. Io invece ero affascinata, e molto divertita.
Dicevi che non sei incline a fare-canzoni sull’attualità. Se è così, il pezzo intitolato La terrorista a chi si riferisce?
Forse non l’ho capito nemmeno io! Direi che ruota attorno ai giudizi delle persone sulle altre persone, e a un mondo nel quale c’è una pressione molto forte per etichettarci tutti, catalogarci, semplificarci. “La terrorista” è semplicemente una donna che non è come qualcuno la vuole: magari è soltanto un po’ persa, ma nel momento in cui non mette in piedi le finzioni che la società richiede, in cui è ciò che è davvero, diventa una fonte di terrore per gli altri.
Parrebbe vagamente autobiografico.
È una cosa che sento molto, sì. In tutte queste canzoni racconto momenti di verità, in cui la gente è come è, senza filtri. E lì, in quelle debolezze, che c’è la vera bellezza delle persone.