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 2014  aprile 15 Martedì calendario

PASOLINI


Uno scaffale. Se dovessi riassumere la lenta e inarrestabile crescita dell’eredità lasciata da Pasolini, da oggi oggetto della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma (a cura di Gianni Borgna, Alain Bergala e Jordi Balló), forse non potrei farlo meglio che con questa semplice immagine. Infatti i contributi critici sul suo lavoro (versi, narrativa, saggistica, teatro, cinema) occupano un metro lineare della mia libreria – la libreria di un lettore che non è né un italianista, né un “pasolinologo”. Mentre scrittori forse altrettanto grandi sono fatti oggetto di pochi, magari ottimi, ma sporadici studi (da Moravia a Parise, dalla Ortese alla Morante, per non parlare dei poeti), Pasolini, insieme al fratello-rivale Calvino, conosce un successo planetario. Con un particolare: se l’autore di Marcovaldo esiste solo in forza della sua scrittura, PPP si è andato trasformando in profeta, martire, corsaro, visionario, politico e credente.
Quanto all’estero, poi, si pensi che paesi distanti fra loro come la Francia e l’India tributano alla sua memoria un vero e proprio culto. Tale proliferazione di saggi affonda le sue radici nel carattere rinascimentale della figura pasoliniana. Non è eccessivo affermare che “l’usignolo della Chiesa Cattolica” (come egli stesso ebbe a definirsi) fu in realtà un artista bulimico e proteiforme, simile a Bembo, a Michelangelo, per non dire a Leonardo, che Paul Valéry collocò fra gli “angeli della morfologia”. Certo della morfologia Pasolini fu semmai il demone, spinto com’era a tentare le forme espressive con una voracità e un’incoscienza stupefacenti. Come non ricordare la perplessità con cui Fellini ne seguì il debutto cinematografico? Basandosi su tesi tanto perentorie quanto discutibili, individuando nella settima arte né più né meno che “il linguaggio della realtà”, Pasolini si gettò a testa bassa nell’avventura della regia, con un preparazione a dir poco carente. Ma, nonostante tanti scetticismi, quell’entusiasmo produsse alcune pellicole che hanno segnato il Novecento. Oggi tale miracolo sembra dimenticato. Invece bisognerebbe ricordare che passare dalla poesia, o dal romanzo, al cinema, equivale più o meno a trasformare un eremita in un dj. Perché in effetti, ed ecco un’altra delle contraddizioni del personaggio, la severità luterana del moralista finì per scontrarsi con il protagonismo di una star capace di regnare sul mondo della celluloide. Da qui gli equivoci che scatenarono contro di lui un’ignobile campagna di diffamazione, con tanto di imitatori televisivi chiamati a parodiare il cineasta e la sua ostentata omosessualità. Resta infatti da menzionare l’ultimo aspetto di Pasolini “santo e martire”. Autore maledetto ma celebrato, blasfemo ma riverito, abituato a scagliare le provocazioni dal pulpito del Corriere della Sera , Pasolini incarnò la figura della vittima sacrificale, testimoniando di una visione del mondo che ancora non ha cessato di dividere i suoi interpreti. Audacissimo premonitore di una società dominata dall’omogeneizzazione e dal pensiero unico, oppure nostalgico cantore di un ideale arcadico, agreste ed irreale? Probabilmente entrambi. Ciò che conta è il suo lascito artistico, così incredibilmente vario, complesso e plastico, specialmente nel cinema. Senza citare i più noti capolavori ( Accattone, il Vangelo secondo Matteo o Mamma Roma), basterebbe ricordare la struggente bellezza di cortometraggi quali Che cosa sono le nuvole? o La ricotta, nonché documentari (?) come La Rabbia o Appunti per un’Orestiade africana . Regista senza eguali. Pasolini seguiva la lezione del Neorealismo, ricorrendo ad attori non professionisti: tuttavia, invece che dalla strada, preferì prenderli dalla critica, dalla letteratura o dalla filosofia – vedi le apparizioni di Giorgio Agamben, Alfonso Gatto, Francesco Leonetti, Enzo Siciliano, Mario Socrate e tanti altri. Con la stessa disinvoltura, sapeva poi ricorrere a un cantante di successo (Domenico Modugno), a un atleta (Giuseppe Gentile) o a un supremo soprano (Maria Callas), senza dimenticare il colpo di genio: trasformare un attore d’avanspettacolo, sia pure sublime come Totò, in una irraggiungibile maschera tragica. Scandalo, scandalo e scandalo. Non era solo questione di costumi sessuali: Pasolini godeva nel violare il cupo conformismo di una borghesia rimasta forse la più piccola d’Europa. Nel catalogo della mostra, il compianto Gianni Borgna ha notato come nel XX secolo, fatta eccezione per Rossellini e Moravia, gli artisti che hanno meglio interpretato Roma (da D’Annunzio a Pirandello, da Gadda a Fellini) non fossero romani. Ebbene, se Pasolini è fra questi, non è un caso. Dopo Bologna e Casarsa, infatti, solo la capitale, come un grande Teatro, poteva accogliere in modo adeguato un’opera quale la sua, portentosa, “mostruosa” nel senso letterale del termine.

Valerio Magrelli, la Repubblica 15/4/2014