Paolo Mieli, Corriere della Sera 15/4/2014, 15 aprile 2014
I MEDICI EBREI DEL PONTEFICE CHE FECE BRUCIARE IL TALMUD
Il Trecento fu per gli ebrei un secolo spartiacque. La peste ebbe l’effetto di risvegliare antiche superstizioni e la leggenda dell’ebreo di Toledo che avrebbe distribuito a suoi correligionari sacchetti di veleno da portare in ogni parte d’Europa, per diffondere il morbo e fare del Continente un immenso cimitero, si diffuse con una velocità straordinaria. Il duca Amedeo di Savoia fece arrestare alcuni israeliti che, sotto tortura, «confessarono»: questa ammissione di colpa fu la «prova» che tutti aspettavano. Contro gli ebrei si scatenò una tempesta di nefandezze e di morte. È di qui che prende le mosse uno straordinario libro di Riccardo Calimani, Storia degli ebrei italiani. L’età dei ghetti: secoli XVI -XVIII , che esce oggi in libreria per Mondadori.
In terra tedesca si diffuse il fenomeno dei Judenschlaeger , i «flagellanti di ebrei». A Tolone nel 1335 fu intentato per la prima volta un processo contro un israelita accusato di aver diffuso il morbo, che si concluse con la pena del rogo. A Strasburgo, nel febbraio del 1349, duemila ebrei furono dati alle fiamme e i loro beni furono distribuiti al popolo. Da quel momento «nella letteratura e nell’arte», scrive Calimani, «gli ebrei si trasformarono in un fantasma che turbava i sogni di ogni buon cristiano e suscitava inquietudini crescenti, frutto anche, forse, dei sensi di colpa dei persecutori». Ma — nota Calimani — fu un Papa del periodo avignonese, Clemente VI (Pierre Roger de Beaufort), che provò, nel 1348, a contrastare questa deriva con la pubblicazione di una bolla in cui sosteneva che gli ebrei erano vittime della peste né più né meno dei cristiani. Come risposta ci fu chi nel suo mondo insinuò che la peste era stata il castigo di Dio per la vita mondana dei Papi avignonesi e di papa Beaufort in particolare. Però, dopo quasi un secolo, fu un altro Papa, Martino V (Oddone Colonna), che — nota sempre Calimani — cercò di porre un freno alle violenze antiebraiche, promulgando un’importante bolla in cui ricordava che il cristianesimo era «nato dal giudaismo» e che, per i cristiani, «l’esistenza degli ebrei era una testimonianza indispensabile».
Un grande pregio del libro di Calimani è quello di ricostruire i caratteri dell’avversione cristiana al giudaismo, restituendo, però, ad alcuni Papi il meritato riconoscimento per quel che fecero al fine di mettere un argine alla corrente di odio. Offrendoci con ciò un quadro più sfaccettato e verosimile di quel che accadde. In particolare a ridosso dell’espulsione, dal marzo del 1492, degli ebrei dalla penisola iberica. L’onda antigiudaica spagnola del 1492 ebbe ampia ripercussione nell’Italia meridionale, dove esistevano importanti comunità ebraiche: alla fine del XV secolo nella sola Sicilia, su una popolazione di 600 mila abitanti, si contavano 35 mila ebrei (più o meno quanti ce ne sono oggi in tutta Italia). Ce n’erano a Palermo, Trapani, Sciacca, Marsala, Termini, Mazara, Agrigento, Licata e nelle isole di Pantelleria, Gozo, Malta. Nel 1489, il viceré Fernando de Acuña aveva concesso alle loro giudecche uno statuto piuttosto liberale, in cambio di corpose sovvenzioni alle imprese militari di Fernando d’Aragona. Quando nel 1492 giunse dalla Spagna il decreto di espulsione, Acuña — su sollecitazione di importanti ufficiali del regno — provò a resistere. Non riuscì nell’intento, ma gli ebrei gliene furono grati. A quelli che volevano restare, Acuña propose la conversione. Si sviluppò di conseguenza un imponente fenomeno di marranesimo, contro il quale il tribunale dell’Inquisizione siciliana si adoperò non poco, divenendo «un organo periferico dello Stato imperiale spagnolo, posto al di fuori e al di sopra delle istituzioni civili e religiose siciliane, dipendente dal re di Spagna e dal suo inquisitore generale». La guerra alle finte conversioni fu spietata. Tra il 1500 e il 1782 furono messi al rogo oltre 400 «giudaizzanti» (su 2.098 condannati), di cui ben 80 tra il 1511 e il 1515.
Quelli che fuggirono dalla Sicilia in un primo tempo ripararono in Calabria, a Salerno, Gaeta, Pozzuoli, Castellammare di Stabia e soprattutto a Napoli, dove il re Ferrante, proprio nel 1492, confermò il precedente impegno di garantire i loro diritti. Talché iniziarono ad affluire israeliti anche dalla Spagna (arrivarono ad essere 50 mila), fino al momento in cui un’epidemia di peste interruppe il flusso. In seguito, a partire dal 1500, le regioni dell’Italia meridionale divennero oggetto di contesa tra la Spagna e la Francia, ciò che rese malcerte le condizioni di vita degli ebrei che lì avevano messo radici. Fino al 1541, quando giunse, per loro, un bando di espulsione definitiva. Dopo trent’anni di strenua resistenza, scrive l’autore, «calava il sipario sulla comunità di Napoli, sulle poche e magari anche importanti famiglie che avevano cercato di resistere… Molti si diressero verso nord, verso Roma o Ferrara, altri in direzione dei porti più ospitali nel Levante, in particolare a Salonicco, dove, alla metà del Cinquecento, c’erano sinagoghe, a ricordo delle origini dei fedeli, dal nome molto eloquente: Italia, Sicilia, Puglia, Calabria, Otranto. Nel giro di pochi anni, agli inizi del Cinquecento, gli ebrei scomparvero dalle città della Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, dove sarebbero tornati, in forma peraltro assai ridotta, solo nell’Ottocento.
E qui Calimani torna a sottolineare l’atteggiamento assai temperato di molti Papi in queste specifiche circostanze. In primo luogo di Alessandro VI (Rodrigo Borgia), a cui nel 1494 l’ambasciatore spagnolo chiese, «in ossequio alle decisioni del suo re», di espellere gli ebrei fuggiti dal suo Paese, ottenendone, come risposta, un rifiuto. Poi Giulio II (Giuliano della Rovere), che nei confronti degli israeliti «manifestò insospettate aperture, anche nel 1510, quando gli spagnoli conquistarono Napoli ed espulsero gli ebrei». Ancora Leone X (Giovanni de’ Medici), il quale conquistò a tal punto gli ebrei che essi «rivaleggiarono con i cristiani» nell’omaggiare il Papa, offrendogli in dono stoffe preziose e ricchi ornamenti. Leone X si spinse a istituire una cattedra di ebraico, e diede l’incarico al convertito Sante Pagnini da Lucca di tradurre la Bibbia in latino; il suo medico personale, Bonet de Lattes, rabbino, ottenne grande considerazione, come è testimoniato da una lettera in ebraico scritta da Johannes Reuchlin, che lo prega di chiedere al Sommo Padre di intercedere a che il processo intentatogli dall’Inquisizione possa svolgersi nella sua diocesi d’origine. Nel 1518 Leone X concesse che nella casa in piazza Montanara di Joan Giacomo Fagiot de Montecchio fosse aperta la prima tipografia ebraica (dove furono stampate le opere di un autore ebreo romano, Elia di Ascer). L’anno successivo autorizzò gli ebrei spagnoli a costruire una loro casa di preghiera, che essi chiamarono sinagoga Catalana-Aragonese. E se nella memoria ebraica si è depositato un ricordo diverso di quegli anni, lo si deve al «sacco di Roma» del 1527, quando bande di mercenari tedeschi e spagnoli agli ordini di Carlo V violentarono la città, senza fare distinzione tra ebrei e i cristiani. Era Papa in quel momento Clemente VII (Giulio de’ Medici), anche lui circondato da medici ebrei quali Jehuda di Rodez (che aveva già servito, in Francia, Francesco I) e il chirurgo Abraham Cohen .
Che cosa fu allora che modificò questo clima? Prima ancora del terremoto provocato da Martin Lutero, il caso provocato, nel 1524, da uno strano personaggio. Veniva da Venezia e diceva di chiamarsi Davide Reubeni. Era «scuro di carnagione, piccolo, nerboruto, simile a un arabo, montava a cavallo con grande perizia, parlava arabo ed ebraico, conosceva bene sia il Talmud che la Qabbalah ». Affermava di essere «l’inviato di Josef, re della tribù ebraica di Reuben, una delle dieci di cui si erano perse le tracce da ventitré secoli e che era nomade in Tartaria». I suoi antenati, diceva, «avevano fondato un piccolo regno situato in una parte lontana e sconosciuta dell’Arabia dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme e ora vi vivevano trecentomila abitanti». Gli ebrei romani furono i primi a farsi affascinare da quest’uomo «in apparenza molto osservante», che diceva in giro «di avere un fratello pronto a mobilitare un grande esercito di ebrei per combattere i maomettani e liberare Gerusalemme dagli infedeli». Josef Askenazi, che era insegnante di ebraico del cardinale Egidio da Viterbo, gli diede ospitalità, e tramite l’alto prelato (ma anche il banchiere Daniel da Pisa) gli procurò un’udienza da Clemente VII. Il Papa accettò di incontrarlo e lui giunse accompagnato da dodici rabbini e da molti giovani pieni di entusiasmo che, tutti assieme, convinsero Clemente VII a far propria l’idea della crociata. Reubeni ricevette dal Pontefice una lettera di accredito, con la quale si recò dal re del Portogallo, Giovanni III. Questi lo accolse con una certa diffidenza, «soprattutto», scrive Calimani, «a causa delle attese che egli aveva saputo suscitare nei marrani portoghesi che al re davano un profondo fastidio». Reubeni decise di trasferirsi altrove, ma ottenne di poter lasciare in Portogallo un suo emissario, il marrano Diego Pires, che in un breve volgere di tempo riprese l’identità ebraica e cambiò il nome in Salomon Molco. Reubeni andò a Venezia, ma anche il doge fu assai perplesso nell’accoglierlo.
Nel frattempo Salomon Molco diventava sempre più importante e non solo in Portogallo. Nel 1530 Enrico VIII d’Inghilterra mandò in Italia suoi ambasciatori, per convincere alcuni dotti cristiani ed ebrei ad appoggiare la sua richiesta di annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona per poter sposare Anna Bolena. Sulla questione fu chiesto anche il parere degli ebrei: Giovanni Mantino si pronunciò negativamente e si schierò dalla parte di Clemente VII, ostile all’iniziativa di Enrico VIII; Molco si schierò invece a favore del nuovo matrimonio del re inglese. Clemente VII ne fu contrariato. Ma ancor più lo fu dall’avverarsi di tre profezie di Molco, in quello stesso 1530: lo straripamento del Tevere, un terremoto in Portogallo e la comparsa nel cielo di quella che avrebbe preso il nome di cometa di Halley. Il Papa a quel punto, complice Mantino che gli consegnò alcune sue lettere contenenti oltraggi alla religione cristiana, fece arrestare Molco dall’Inquisizione e, dopo un veloce processo, lo mandò al rogo. Ma, grazie ad uno scambio di persona, Molco riuscì a salvarsi, a fuggire e a ricongiungersi con Reubeni. I due offrirono i propri servigi a Carlo V, che però li fece arrestare e li mise al rogo. Quanto meno Molco (a Mantova nel 1532), dal momento che, non si sa come, Reubeni riuscì a far perdere per sempre le sue tracce. Senza che delle sue genti, di suo fratello in Tartaria e della sua crociata si sapesse più nulla.
Fu anche questo strano episodio a far sì che, nel clima imposto dalla necessità di far fronte all’offensiva luterana, le cose cambiassero nel corso del Pontificato di Paolo III (Alessandro Farnese). «Come è possibile», chiedeva nel 1539 il cardinale Jacopo Sadoleto, «veder perseguitare i protestanti in nome della religione, mentre gli ebrei vengono tollerati?». Papa Farnese rispose, tra il 1542 e il 1543, con tre bolle di esplicita intenzione antiebraica. Si noti che — come ha rimarcato Léon Poliakov nella Storia dell’antisemitismo (Bur) — anche Paolo III, obbediente alla tradizione di cui abbiamo detto, si faceva curare da medici ebrei. Così anche il suo successore Giulio III (Giovanni Maria del Monte), che però, nel 1553, dispose la messa al rogo del Talmud e con esso di tutti i libri in ebraico.
La vicenda ebbe origine da due editori veneziani in concorrenza tra loro, che stamparono due edizioni, con differenti commenti, dell’opera di Maimonide. L’arbitrato sul loro litigio fu avocato a Roma, dove entrambi godevano di «buone relazioni» nell’alta Curia. Tre apostati ex ebrei colsero l’occasione per inserirsi nella controversia e fomentare una polemica di più ampie dimensioni che coinvolgeva il Talmud , nelle cui pagine, sostenevano, si trovavano «espressioni offensive nei confronti dei dogmi cristiani». In agosto Giulio III dispose che il Talmud fosse bruciato e in settembre, a Campo de’ Fiori, furono accatastati e dati alle fiamme libri ebraici di ogni genere. Il decreto «De combustione Talmud» che, per la precisione, fu emanato dalla congregazione dell’Inquisizione romana e successivamente sottoposto al Pontefice, affermava che il compito della Congregazione non era solo quello di cancellare l’eresia, ma anche di «vigilare sugli ebrei» e che il suo proponimento era quello di bruciare i libri «empi e blasfemi in odio a Cristo», definiti in blocco Talmud . Ciò che spiega perché a Campo de’ Fiori furono dati alle fiamme anche testi che con il Talmud non avevano niente a che fare. E perché ogni sorta di volume ebraico finisse al rogo a Venezia, Pesaro, Ancona, Mantova e Candia in quello stesso 1553 e a Cremona nel 1559. Dopo la lite tra gli editori veneziani che aveva scatenato quel pandemonio, «il bisogno di accrescere l’autorità giuridica rabbinica divenne più sentito». Nel senso che fu stabilito che «nessun ebreo poteva far causa a un altro ebreo davanti ai tribunali comuni senza il permesso dei rabbini e delle comunità».
Poi, durante il breve Pontificato di Marcello II (pochi mesi nel 1555), l’uccisione di un bimbo cristiano provocò risentimenti antiebraici e solo «l’accorto intervento» del cardinale Alessandro Farnese — il quale con un espediente riuscì a smascherare l’autore del delitto, un avvocato arabo spagnolo — impedì che il tutto degenerasse in un’ecatombe di ebrei. Ma il 1555 restò per gli ebrei un anno orribile, dal momento che il successore di Marcello, Paolo IV (Gian Pietro Carafa), con la bolla «Cum nimis absurdum», diede il la a una svolta antigiudaica contrassegnata non già dalla creazione del ghetto di Roma, bensì dal «rogo di Ancona», nel corso del quale furono imprigionate e poi date alle fiamme 24 persone. Il successore di Paolo IV, Pio IV (Angelo de’ Medici), diede segno di qualche apertura, cancellando le limitazioni ai commerci degli ebrei e consentendo la pubblicazione di qualche loro libro (purgato), purché non avesse sul frontespizio la parola Talmud . Ma il clima era cambiato. E con Pio V (Michele Ghislieri) si tornò alle norme di papa Carafa. Nel 1569 Ghislieri promulgò la bolla «Hebraeorum gens», che prevedeva l’espulsione degli ebrei da decine di città, praticamente tutte ad eccezione di Roma e Ancona.
Fu quella che Calimani definisce «una svolta dolorosa». A cui reagì Cosimo I, granduca di Toscana, concedendo qualche libertà agli israeliti che avessero cercato riparo nella sua terra. Libertà che sarebbero state codificate nel 1593 dal suo successore, Ferdinando I, in uno statuto che avrebbe preso il nome di «Livornina». Uno statuto che offriva agli ebrei di Livorno (ma poi anche di Pisa) libertà di movimento, possesso di immobili, immunità da «alcuna inquisizione, visita, denuncia o accusa». E che considerava il rapimento di bambini ebrei e le conversioni forzate crimini punibili con pene severe. La «Livornina» rimase inalterata per due secoli e mezzo, fino al 1836. In nessun Paese alla fine del Cinquecento, osserva Calimani, «erano previste concessioni così ampie per gli ebrei». Guyot de Merville, un viaggiatore francese del Seicento, definì Livorno «il Paradiso degli ebrei». A metà Settecento gli ebrei di Livorno erano tremila, il dieci per cento dell’intera popolazione.
L’altra città che accolse gli ebrei, in particolare quelli provenienti da Napoli e dal Sud, fu Ferrara, nel solco aperto già dal 1534 da Ercole II d’Este. Ercole II, in esplicita polemica con papa Paolo IV, aveva accordato agli israeliti i privilegi concessi dai Pontefici che avevano preceduto il Carafa. E per alcuni decenni «Ferrara, grazie agli Estensi, fu l’unico Paese cristiano in cui marrani, sefarditi, conversos , portoghesi o spagnoli, uomini marginali e in difficoltà, trovarono rifugio ed ebbero la possibilità di tornare all’ebraismo, in qualsiasi momento, anche se avevano vissuto da cristiani, non solo in terre lontane ma in quella stessa città».
Terza importante città che accolse gli ebrei fu, già dal 1502, Venezia, dove nel marzo 1516, su iniziativa del patrizio Zaccaria Dolfin, era stato istituito il ghetto Novo, là dove precedentemente sorgeva una fonderia in disuso (da getto viene il nome ghetto) nella parrocchia di San Geremia. Fu questo il primo ghetto della storia europea. A pretenderlo furono i predicatori francescani, i quali da mesi andavano ripetendo che «la Repubblica, se voleva sopravvivere, doveva riconquistare il favore di Dio e scontare i suoi peccati», tra cui il più grave era quello di lasciare vivere gli ebrei liberi di circolare per la città. Calimani riconosce, però, che, pur con quella limitazione, con l’istituzione del ghetto «gli ebrei videro riconosciuta giuridicamente la loro permanenza a Venezia». Si trattava di una «stabilità precaria, carica di tensioni, ma rispetto ad altre situazioni europee, positiva, tanto che la fama del ghetto di Venezia si diffuse in tutta Europa e molti nelle comunità della diaspora furono tentati dall’idea di raggiungere la laguna». La chiusura degli ebrei nel ghetto, prosegue l’autore, «fu una evidente discriminazione, ma paradossalmente si trasformò in un’utile difesa, perché gli ebrei, soggetto politicamente debole all’esterno delle mura, diventavano, all’interno del recinto in cui erano stati rinchiusi, autonomi e padroni delle loro azioni, in molti casi ben più di tanti abitanti e sudditi».
Quarta città che accolse gli ebrei fu dal 1572 la Torino di Emanuele Filiberto, il cui successore Carlo Emanuele I nel 1648 concesse ulteriori privilegi e si oppose perfino alla costruzione di un ghetto. Già dal secolo precedente il Piemonte e il Monferrato erano stati particolarmente ospitali nei confronti dei discendenti di David che si erano stabiliti — in particolare — a Savigliano, Casale, Acqui, Asti, Moncalvo, Nizza e infine a Cherasco. E questa politica di apertura aveva provocato decise reazioni della Santa Sede. Ma i Savoia non si lasciarono intimidire (come si è visto con Carlo Emanuele) e Francesco d’Este, nel 1652, ne seguì l’esempio. Inoltre, nel 1668, il granduca di Toscana ordinò che fosse bandita ogni forma di ingiuria e violenza contro gli ebrei.
Calimani mette in evidenza come tra il Seicento e il Settecento anche la Chiesa di Roma non fu univoca nell’osteggiare gli ebrei. La stessa Inquisizione intervenne più volte contro le violenze messe in atto dalla Casa dei Catecumeni per costringere gli ebrei ad accettare il battesimo. Nel 1616 Paolo V (Camillo Borghese) emanò una bolla nella quale denunciava il fatto che «alcuni cristiani, rinnegando la carità e la mitezza cristiana, vessano gli ebrei e li derubano dei loro beni e della loro esistenza» e non «si astengono neppure dal colpirli con violenze, delitti, uccisioni e atti sciagurati indegni del popolo cristiano». Un secolo dopo, nel 1729, Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini) ordinò che il carnevale degli ebrei non fosse oggetto di angherie. E nel 1751 Benedetto XIV affermò solennemente che gli ebrei non dovevano essere «né perseguitati, né uccisi, né espulsi» .
Fu Pio VI (Giovanni Angelo Braschi), il Papa dei tempi della Rivoluzione francese, che compromise il rapporto tra la Chiesa e gli israeliti in virtù del suo «Editto sopra gli Ebrei» (1775). Quando, tra il 1796 e il 1799, l’esercito napoleonico calò nella nostra penisola, gli ebrei furono individuati come complici dell’invasore e le insorgenze antinapoleoniche ebbero pesanti, pesantissimi tratti antisemiti: a Pesaro, Urbino, Pitigliano, Lugo, Livorno, Monte San Savino, Senigallia, Siena, Modena, Reggio, a Napoli e in tutto il Sud. Gli anni di Pontificato di Pio VI, dal 1775 a quando, a fine agosto del 1799, morì in cattività nella fortezza di Valence, furono molto negativi per i rapporti tra Chiesa e popolo ebraico. E questo proprio mentre in Austria, sulla scia di Maria Teresa, Giuseppe II concedeva (1780) i pieni diritti di cui godettero gli israeliti di quella parte d’Italia che ancora per alcuni decenni sarebbe stata amministrata dall’Impero asburgico. Fu in quel frangente che la storia prese un passo diverso. Ma, come dimostra in questo importante libro Riccardo Calimani, viste le premesse dei secoli precedenti, non era detto che le cose dovessero necessariamente mettersi sotto il segno della reciproca ostilità.