Sergio Rizzo, Corriere della Sera 15/4/2014, 15 aprile 2014
INTERROGATIVI SU UNA SVOLTA
Se volgiamo lo sguardo al decennio passato dobbiamo riconoscere che all’infornata delle nomine renziane non mancano tratti coraggiosi. La prova era certamente cruciale. E Matteo Renzi avrà pure provato sulla propria pelle cosa significhi sfidare certi gruppi di pressione.
La fuoruscita dei vecchi amministratori delegati, in qualche caso seduti sulle poltrone pubbliche da ben oltre il limite dei tre mandati, è certo una grossa novità. Altrettanto lo è la presenza delle donne, da sempre tenute ai margini della stanza dei bottoni: si tratti del governo, delle aziende statali, degli enti e perfino delle authority. Prima di questa tornata di nomine occupavano il 20,2 per cento delle poltrone nei consigli di amministrazione delle 25 società non quotate direttamente controllate dal Tesoro, e questo solo grazie alla legge che ha imposto di riservare loro, progressivamente, almeno un terzo dei posti nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali. Ma il peso specifico del genere femminile, al di là delle percentuali, risulta ovunque pressoché inesistente. Appena tre presidenze per 25 società: il 12 per cento del totale. Nelle quattordici autorità indipendenti, comprendendo fra queste anche la Banca d’Italia, le donne sono appena nove su 57 componenti, e nessuna di loro occupa il posto di presidente. Zero su quattordici.
In un’Italia nella quale il potere si è sempre declinato esclusivamente al maschile, l’arrivo delle donne ai vertici delle grandi aziende pubbliche potrebbe dunque essere visto come qualcosa di rivoluzionario. Anche se poi i nomi sono quasi sempre gli stessi che girano da anni, e a nessuna è stato affidato il timone aziendale.
La triste verità, e lo confermano le scelte degli amministratori esecutivi e il faticoso percorso con cui si è arrivati a farle, è la generale povertà della nostra classe manageriale. Si potrebbe discutere a lungo sui motivi, del resto comuni a quelli che hanno reso l’attuale ceto dirigente italiano (tutto intero) il più debole del dopoguerra. Ogni ricambio si rivela sempre estremamente difficile: nelle imprese pubbliche, poi, assume spesso i contorni di una missione impossibile. Le scuole manageriali, quale per esempio era l’Iri, sono chiuse da un pezzo. E in quelle della pubblica amministrazione la direzione aziendale non è materia d’insegnamento. I pochi manager giovani e di valore preferiscono l’estero o il privato e non sono attirati da incarichi pubblici nei quali rischiano di subire i condizionamenti politici e delle lobby. Prova ne siano i rifiuti che Renzi ha dovuto incassare.
Ecco allora che in questa carenza di capitale umano si finisce per avvicendare i vecchi amministratori con maturi dirigenti interni cresciuti alla loro scuola, come è accaduto all’Eni con la promozione del delfino di Paolo Scaroni, Claudio Descalzi.
O per spostare amministratori da una casella all’altra, con migrazioni assai singolari. Tale è il passaggio di Mauro Moretti dalle Ferrovie dello Stato alla Finmeccanica, posto di grande respiro internazionale, in sostituzione di un Alessandro Pansa estromesso dopo un anno senza particolari demeriti. Per Moretti, che guida le Fs dal 2006, è la quinta nomina consecutiva da amministratore delegato: molto sostenuta all’interno del Pd da Massimo D’Alema. A dimostrazione che fra cacciatori di teste e comitati di saggi ancora con la politica, in fondo, si sono dovuti fare certi conti.