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 2014  aprile 11 Venerdì calendario

IN PRIMA PERSONA, TUTTO


[Violetta Bellocchio]

IL CROLLO: in un bar di Milano, ascoltando in cuffia i Muse, Violetta Bellocchio scoppia a piangere. Non un pianto sommesso, elegante. No. Scrive: “Le lacrime spingevano, mi tagliavano gli occhi”. Nausea, labbra livide, pugni serrati. Un crollo nervoso vero e proprio. Violetta Bellocchio è la protagonista de Il corpo non dimentica (Mondadori), secondo libro firmato da Violetta Bellocchio dopo Sono io che me ne vado, del 2009. La coincidenza di nomi tra protagonista e autrice non è un vezzo. In questo libro Violetta racconta come – dopo molti anni di totale sobrietà – abbia un breakdown psicofisico davanti a una tazza di caffè, come dovesse iniziare una disintossicazione in quel momento. Semplicemente non si è mai fermata a riflettere sulla Violetta ubriacona e impunita che si è lasciata alle spalle. Ha nascosto quella lei da qualche parte dentro di sé e ora è arrivato il momento di farci i conti. Questione di vita o di morte, più o meno. Un lavoro da paura che ha portato a questo libro di «non-fiction narrativa», macro genere letterario che abbraccia il memoir e l’autobiografia, i diari e l’inchiesta giornalistica. Le letture preferite di Violetta, che a questo genere ha dedicato anche una rivista online, abbiamoleprove.com. Per lei significa dare voce a donne, solo donne (nomi conosciuti, altri no, non è importante), che raccontano quello che conoscono meglio: la loro vita. La stessa materia prima sulla quale ha lavorato Violetta con Il corpo non dimentica. Per parlare del libro, incontriamo Violetta in un bar milanese, lontano da quell’altro. Noi quasi intimiditi dalla materia, lei per niente.

Com’è nato il libro?
Durante una vacanza estiva – in cui stavo già bene, non bevevo più – avevo cominciato a prendere appunti per un possibile saggio sulla figura della donna autodistruttiva. Per esempio, studiando le fotografie fatte alle pazienti che soffrivano d’isteria certificata, nell’Ottocento. Quelle, impressionanti, in cui le si vede svenire all’indietro – mentre invece il corpo tende a cadere in avanti, è una questione di baricentro. Quella è una manifestazione di qualcos’altro, non un abbassamento di pressione: stai facendo una caduta all’indietro. Una delle tante interpretazioni per spiegare questa cosa piuttosto innaturale è che – data la morale sessuale e sociale del periodo – si trattasse di un modo estremo di mostrare il corpo. O di offrirsi eliminando la responsabilità personale.
Quando parli nel libro di “impunibilità”. Intendi questo?
Io oggi sono sobria e qualunque cosa brutta che mi può accadere accade con la mia piena lucidità. Ho ricordi faticosamente recuperati di anni in cui ho fatto qualunque cosa e non mi è mai successo niente, parlo di strappi brutti, irreparabili. Capitasse qualcosa adesso, non vivrei con un rimosso, qualcosa di orribile, ma con un fatto. Mentre scrivevo, era una cosa che mi mancava moltissimo. Ero molto infelice, quando commettevo tutte queste forme di abuso, però... In qualche modo non era colpa mia. Mi ero allontanata completamente dal corpo, quindi la risolvevamo così.
Tornando al progetto, l’Idea Iniziale del libro era quella di un saggio storico?
Sì. Kidea era: “So di cosa parlo, ne ho avuta esperienza diretta, ma affronto il tema con uno sguardo saggistico”. Nel ragionarci con la mia editor, ha iniziato ad affiorare il memoir. Non era solo una questione di fare riferimenti generici alla mia storia, ma piuttosto di quanto potessi misurare col bilancino l’elemento autobiografico in un testo sulla cultura, gli archetipi. Gli appunti presi in vacanza hanno sempre un valore intimo, familiare... Li rileggevo e mi dicevo: “Ah sì, questo è bello... Ah, questa frase è venuta bene...”. Li ricopiavo in word e cominciavo ad avere attacchi di ansia, la manina che tremava, la bocca dello stomaco chiusa. Ho continuato a prendere appunti molto disordinati in cui cercavo invano di far entrare il memoir. Dopodiché arriva la crisi del progetto di saggio, ed eccomi, seduta a piangere in un bar di Milano, mentre ascolto un disco dei Muse.
Il crollo emotivo è arrivato perché avevi iniziato a scrivere quegli appunti?
È stato un super sintomo ansioso, perché mi sono resa conto che si trattava di affrontare la materia andando a recuperarla nella memoria. Consapevole di aver bloccato tanta parte del mio passato, di averla repressa perché avevo deciso, autonomamente, che la cosa più sana da fare era sotterrarla. Cosa dovevo fare? Avevo due strade, davanti: farmi aiutare a cercare di ragionare su un pezzettino alla volta e richiamarla io o seguire il metodo di David Carr, reporter del New York Times. Uno dalla vita ricca e felice, ma che si era fatto di crack da giovane per un periodo molto tumultuoso. Allora ha applicato a se stesso le sue competenze di giornalista investigativo e veterano di mille inchieste, dicendo: “Cercherò di fare luce su una giornata particolare della mia vita di cui io ricordo poco o nulla e in cui un mio amico ha detto: ‘La pistola a casa mia l’hai portata tu’”. Il libro si chiama The Night of the Gun, e ha una buona scrittura. Qualcuno aveva quindi già fatto questo tipo di lavoro, ma io non potevo bussare a tutte le porte delle persone che conoscevo dieci anni prima e dire: “Senti, per caso, ci sono delle fotografie in giro?”.
La parte centrale del libro è un “diario”, un compito che ti viene assegnato dalla tua terapeuta: 28 parole (“metodo”, “Immagine”, “famiglia”...), da affrontare una al giorno: punti di partenza per lasciar riaffiorare memorie traumatiche. Una tua creazione o ha fatto davvero parte di una terapia?
Durante i primi mesi senza alcol, una donna di Alcolisti Anonimi mi aveva suggerito di tenere un diario. Immediatamente ho pensato: “Mio Dio, che stronzata! No, non sono così narcisista...”. Perché comunque era già scattato il click che mi diceva che queste cose avrei dovuto tenerle per me, il click punitivo di “adesso dimostrerò a tutti che posso essere una brava persona e che tutti mi vorranno bene perché ho smesso”. Poi ho cominciato a lavorarci, mentre continuavano a cambiare i titoli di lavorazione. Tipo: Fiamma; Un libro orribile; Mangiate dopo; Una collezione di fatti tremendi accaduti tutti a me; Oh, ma zio caro, tutte a lei? Sì, zio caro, tutte a me!; Che cos’è?! Un film di Lars von Trier?!
Il lavoro più grande è guardare in faccia l’“altra” Violetta, quella beona e impunita.
Lei era un ammasso di sintomi fisici che avevo, quando non riuscivo a scrivere. La percepivo come una parte femminile perché era stata prontamente messa via. Io mi svegliavo davvero alle cinque di mattina con la sensazione di una mano dentro di me. O con un movimento nella pancia, come fosse dell’acqua che si spostava. Sapevo di non star avendo manifestazioni di possessione demoniaca. Ho dovuto parlarne a chi cercava di aiutarmi e sono stata molto rassicurata, in questo.
Perché è fondamentale dire: “Sto male, aiuto”. Giusto?
Sostanzialmente ho avuto un periodo che è durato anni in cui ho ritenuto che la strategia migliore per cercare di avere una vita dopo la disintossicazione fosse di non parlarne mai. O di parlarne coi toni di un comunicato stampa. “Sì, guarda, avevo questa cosa, adesso non ce l’ho più, andiamo avanti”. In realtà mi ha fatto malissimo, perché avrei desiderato che gli altri la capissero e la trattassero con rispetto. Ma le persone non vivono per tenerti gli occhi addosso, per anticipare i tuoi bisogni. Ciascuno è molto concentrato su se stesso. Mi è capitato a volte di sfogarmi nella maniera peggiore, meno opportuna, con persone che passavano di lì per caso, che non avevano gli strumenti o la lucidità per aiutarmi. E tutte queste cose che non dicevo, tutta questa vergogna tremenda che continuavo ad avere, hanno significato davvero soffocare un sacco di cose, trasformarle... sì, quasi in allucinazioni. Mentre mi stavo addormentando, avevo improvvisamente il flash di una cazzata che mi era successa dieci anni prima, che bruciava e faceva male come se stesse succedendo in quel momento, come fosse un’umiliazione fresca. Nei mesi in cui si stava formando il libro mi sono ritrovata divisa in due: c’era una Violetta che cercava furiosamente di prendere i suoi appuntini sulla critica culturale, mentre l’altra diventava puro sintomo. Forse non mi sentivo così a disagio da quando avevo smesso di bere. Ma sono riuscita a farla uscire allo scoperto. La mia vita con “lei” è impostata sul “va bene, è qui”. È una parte di me, non posso rimuoverla, far finta che non ci sia stata.
Capitolo 1: “A volte dici che essere dipendenti da qualcosa significa avere una storia d’amore epica con tè stesso”.
Una forma di tossicodipendenza è una forma d’amore, certo patologica. Forse potrei dire che per anni sono stata insieme a una persona che mi picchiava. Cose da dire col contagocce, perché poi arriva il portavoce di un’associazione contro le violenze domestiche che mi dice: “Non ti azzardare a dire che sono la stessa cosa”. Non l’ho detto. In ogni caso, per me, al di là di come sarà accolto il libro, la sua funzione performativa l’ha avuta.
Perché si tratta di imparare a convivere con limiti e fragilità personali...
Mi era anche stato fatto notare che l’alcolismo poteva essere il sintomo di un disordine della personalità. E lì mi son chiesta: “Ma come, scusate, ho fatto tutta questa fatica e adesso?”. È possibile, tra l’altro, che nel mio caso fosse sia una malattia, sia il sintomo di qualcosa che non andava bene e che doveva uscire in qualche modo. Io ho un temperamento ossessivo. Devo impegnarmi a svoltarlo in senso positivo. Perché, se sono molto concentrata su una cosa che mi piace, rimango concentrata su quella cosa. Adesso, nei momenti in cui sto male, non ho mai l’impulso di bere un bicchiere di vino. E non mi sto vantando: è proprio una cosa che a me non succede. Quando c’è forte nervosismo, ho sintomi ansiosi, mi dico: “Bene, per oggi chiudiamo bottega. Devo rispondere a delle mail, ma non è il momento; ho scaricato cinque puntate di Law & Order e ora le guardo tutte”.
Se c’è un’aggravante per l’alcol è di essere disponibile ovunque.
Sono diventata alcolista perché abito in un Paese dove l’alcol è economico, legale, facilissimo da trovare, ancora un po’ te lo tirano dietro al supermercato. Fossi vissuta in un posto dove la cocaina era a buon mercato e la tolleranza sociale un pochino più alta, sarei stata abbastanza cablata sullo spirito del tossicomane. Alla fine ha vinto l’alcol. Ha vinto il fatto che potevo andare al supermercato e prendere quello che volevo, piuttosto che telefonare al pusher e vedere se arrivava. C’è un vuoto terribile, che mi ha fatto stare malissimo e che mi fa arrabbiare molto. Io ho vissuto l’infanzia negli anni ’80, durante i quali giustamente si parlava ossessivamente di eroina. Che, da quello che ricordo – e che poi ho visto nelle storie di persone più grandi – era un problema enorme. Sono cresciuta con Muccioli in tv, ai telegiornali. Aveva i baffoni, sembrava Mangiafuoco. Col terrore di sapere che drogarsi significava finire in comunità, che ci restavi dieci anni, nel pollaio, a zappare la terra e a piantare i vasetti di margherite, con addosso una salopette di jeans. Se non ti gonfiavano di botte. Tutte cose che tuttora m’incutono terrore. A Milano, noi bambini non potevamo andare a giocare a Piazza Vetra perché era coperta di aghi. Quindi il messaggio che mi è arrivato è stato: “Ok, quella è una cosa che non si tocca, il resto è tutto eccitante, in qualche modo”. E tutte quelle campagne sociali sulle stragi del sabato sera, sul bisogno di sballare e cose così, su di me non hanno mai avuto nessun effetto se non quello di farmi bere di più.
Nel libro dici una cosa simile anche del film 28 giorni, quello con Sandra Bullock che va in rehab.
Dove lei ha una bella pelle! Oggi do la responsabilità a quel film di merda, che passava ossessivamente sui “Bellissimi” di Rete4, di aver ritardato il mio ingresso in Alcolisti Anonimi di almeno sei mesi. Poi... Non lo so, false responsabilità, forse... Ma non hai certo una bella pelle e i capelli puliti, nel momento in cui entri in rehab. Ti scoppia tutto, ti vengono un sacco di foruncoli perché non bevi più.
Ti sembra sia cambiato qualcosa nell’opinione pubblica rispetto ad allora?
In Italia l’abuso di alcol è qualcosa di cui non si parla. Si comincia adesso perché sono arrivate delle bevande sul mercato che si rivolgono esplicitamente agli adolescenti – gli alco-pop, cose molto zuccherose – obiettivamente un po’ terrificanti. E difficile fare un discorso sull’alcol in un Paese che produce vino, la cui forza economica in intere regioni poggia su slogan tipo: ‘Venite a bere da noi e a mangiare i nostri pomodori dell’orto e il grano saraceno...”. Lo stesso silenzio che c’è intorno ai luoghi di cura. Io sono dovuta andare a cercare Alcolisti Anonimi su Internet e meno male che c’era un sito – ho dovuto telefonare al centralino nazionale – e meno male che mi ha risposto una tipa – e ho dovuto cercarmi un meeting, dicendomi: “Alla peggio troverò degli invasati”. Gli ubriachi non hanno visibilità, c’è una gogna generale intorno a loro: averli intorno fa ridere, la ragazza ubriaca può essere presa in giro facilmente, l’ubriachezza femminile è vista come un segnale di disponibilità sessuale. Maschio o femmina che sia, ti fa comodo avere uno sbronzo vicino, che non si sa tenere, perché tu ti senti comunque meglio, più intelligente, visto che sai controllarti. Ci dev’essere qualcuno, un amico che ti prende da parte e ti dice due parole. Possibilmente non dentro un bar, com’è successo a me – anche se voglio molto bene all’amica che l’ha fatto.
C’è stato un evento scatenante per farti iniziare la disintossicazione?
No. Forse è stato perché erano mesi in cui non lavoravo molto ed era arrivata una possibilità: scrivere di cinema per un settimanale. Che significava dover produrre una paginetta alla settimana e andarsi a vedere i film. Mi sono detta: “Buttiamo in vacca anche questa occasione o riduciamo un po’, ci proviamo?”. Ma anche in passato avevo avuto occasioni così e le avevo perse... Sapete che c’è? Era arrivato il momento.
Scrivi: “Ho smesso perché ho capito che ci avrei messo anni a morire”.
È vero. Perché esiste una forma di degrado in cui ti sei messo volontariamente, ma non ti stai trasformando in Nancy Spungen. Sei sempre te stesso, sempre peggio. Non hai fatto uno strano scatto per cui sei diventato un grande artista o una grande cantante. No. Stai ingrassando sempre di più, sei vestito sempre peggio e dici: “Ok, prima o poi il tunnel finirà, ma fino ad allora sarà esattamente così, solo sempre un po’ peggio, ogni mese di più. Quando finirà?”. Che poi, a proposito di cantanti: adesso, col senno di poi – sembra una battuta, ma non lo è – sono abbastanza convinta di essere diventata alcolista perché non sapevo cantare. Se avessi fatto la cantante avrei potuto dare corpo a dei desideri di affermazione...
Oltre a ciò, racconti del meccanismo per cui diventi un “sacco vuoto” per chi ti sta intorno...
Oh, mio Dio! L’anno della scrittura del libro è stato il più brutto della mia vita, da questo punto di vista. Siccome non articolavo molto... Ero circondata da persone che mi raccontavano cose non facili, non gradevoli. Un’infinità di adulteri, in tutte le variazioni possibili. Tutti stavano male, nessuno tradiva ben felice del risultato o cercava la mia complicità. Solo lamenti. Ho finito per maturare una sfiducia terribile nella monogamia e nella possibilità di essere felici in una relazione. Mi dicevo: “Ma allora, scusate, siete un Paese di stronzi. Vi sposate, vi tradite in continuazione e soffrite pure”. Così ho imparato a dire: “Ti ascolto, ma credo che ti faccia bene andare a parlarne con qualcuno – scegli tu il percorso, possono essere anche solo cinque incontri – che ti dia gli strumenti per lavorarci, perché è inutile che mi racconti i tuoi abusi sessuali da bambino se poi continui a essere infelice, a starci male e non ti fai aiutare. Però non li buttare addosso a me”. Il mio lavoro per abbiamoleprove.com consiste nel leggere cose orribili e molto tristi, che però sono state comunque mediate da una forma di scrittura personale, quindi già meno invasive rispetto a una “grande confessione non richiesta”.
Non trovavi una compensazione nel ricevere queste confidenze?
Ma quale compensazione! A quelli sposati dicevo: “Guardate che voi non siete degni, avete preso un impegno agli occhi dello Stato italiano!”. Lo ammetto: c’è del compiacimento, ogni tanto, a entrare in contatto con storie a tinte forti. Da bambina leggevo gli articoli sul mostro di Firenze. Però è diverso se vado a cercare intenzionalmente informazioni o racconti pesanti, tristi, virulenti, o se uno mi dice: “Sei alcolista? Bene. Sai, mia cugina è bulimica...” e si vende i cazzi pesantissimi di qualcun altro, che tra l’altro è assente. È anche possibile che io irradiassi delle cose strane, all’esterno, perché se no non è possibile che li incontri tutti tu, che diventi una calamità per gente che sta male e soffre. Adesso, infatti, succede meno.
E le tue relazioni affettive?
C’è una quantità spaventosa di uomini che, stando alla mia esperienza, ama tantissimo le donne disturbate perché s’illude di vedere in loro una profondità che non c’è o perché si nutre, da spettatore, del loro problema. Io oggi sono libera sentimentalmente. La quantità di relazioni con uomini, dopo la disintossicazione, si è abbattuta. È un dato di fatto. Non mi sto lamentando, è semplicemente la verità. L’essere sobrio svela i difetti degli altri. Si diventa incredibilmente esigenti rispetto all’offerta. Ho sofferto abbastanza. Che vuol anche dire: ci sono cose che non voglio più fare. Tipo: ‘Vieni a cena? Siamo sei coppie, tu e un ragazzo gay”. No, grazie. Trovatevi altri amici single. Non mi va di starmene lì a fare “il ritratto di Dorian Gray” dei vostri matrimoni.