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 2014  aprile 12 Sabato calendario

IL SURFER CHE VOLLE DIVENTARE MARILYN


Questa signora dai capelli riccioli e decolorati, che s’ammira in uno specchio col volto di Marilyn Monroe inciso sopra, parla di Peter Drouyn come fosse un fratello scomparso, amato e sfortunato, vissuto un sacco di tempo fa. «È stato lui a comprarlo, nel 1979. Da quel giorno l’ha portato sempre con sé. Sapeva che Marilyn era parte di lui, come adesso è parte di me».
Tira fuori alcune istantanee da un album, passa repentina dal riso al pianto, dal pianto al riso, racconta: «In questa immagine il povero Peter è ai campionati mondiali in Perù, con una tavola orribile, pesantissima. Ma era talmente bravo che è riuscito a piazzarsi terzo ugualmente», dice, mostrando una foto in bianco e nero di un giovane alto e muscoloso, i capelli chiari lunghi ma radi, il surf sotto il braccio e i piedi forti piantati sulla battigia. «Qui invece ha undici anni, con mamma e papà. Finge un sorriso ma dentro sta male, lotta già coi suoi demoni». La signora Westerly Windina sa tutto quanto di lui. È la sua biografa più informata, da 64 anni a questa parte. Lei e la leggenda del surf australiano Peter Drouyn sono la stessa persona.

IL BOZZOLO E LA FARFALLA
«Per noi era un supereroe. Ricordo il valletto che gli portava la tavola mentre lui camminava per la spiaggia impettito, come Marlon Brando», ricorda Wayne “Rabbit” Bartholomew, campione del Mondo nel 1978. «Era un visionario, un genio, l’inventore del surf moderno», si lascia scappare Derek Reilly, giornalista della rivista specializzata Stab. Tutti ne parlano al passato come si fa coi defunti, come se una delle onde che ha cavalcato per gran parte della vita l’avesse ucciso e non invece condotto verso una svolta totale, inattesa solo a chi non conosceva la tempesta in corso dentro la sua anima. Peter Drouyn, per tre volte campione d’Australia e primo agli internazionali hawaiani di Makaha del 1970, considerato l’ideatore dei contest “uno contro uno” e pioniere del surf in Cina dove negli Anni 80 organizzava i primi stage, è diventato una donna. Non un travestito o un eccentrico. Non una transessuale. Ma una femmina anatomica, al termine di un lungo percorso psicologico e ormonale e dopo l’operazione fatta a Bangkok l’11 dicembre del 2012.
«Adesso lo posso dire», scrive Westerly in uno scambio di email con SportWeek dalla sua modesta casa di Labrador, quartiere di Gold Coast, nel Queensland australiano, dove vive senza fama e senza soldi: «Il bozzolo è in acqua, e la farfalla finalmente vola». Una storia che ha scosso le radici stesse del mondo del surf, dove le tendenze machiste sono considerate un retaggio necessario, una condizione di realtà insopprimibile. E che ha carpito l’interesse dello sceneggiatore di House of Cards e delle Idi di marzo, Beau Willimon, che proprio in questi giorni sta terminando la lavorazione di un documentario dedicato a questa vicenda umana incredibile. Il titolo del film, che a oggi non ha una data d’uscita certa, è il sommario di un’esistenza. Westerly: a man, a woman, an enigma. «Musica, danza, emozioni, sensibilità acuta, determinazione costante, destrezza e nobiltà d’animo sono requisiti indispensabili per capirmi», insiste lei, accettando l’intervista: «Ho acconsentito perché credo che gli italiani siano un popolo dotato di immaginazione sufficiente per relazionarsi col mio mistero. E comprendere il mio dramma».

CHI ERA PETER
Nato a Surfer’s Paradise nel 1950, figlio di un commerciante d’abbigliamento e di un’insegnante con la passione per il canto e il pianoforte, Peter cresce in una famiglia piccolo-borghese e cattolica, insieme al fratello maggiore Anthony, oggi malato. «Prima che Peter venisse al mondo, il ginecologo aveva giurato a mia madre che sarebbe nata una bambina», puntualizza Westerly, usando la terza persona singolare che sceglie sempre per riferirsi a Drouyn, e occasionalmente anche a se stessa.
Vive un’infanzia serena, apparentemente. Anche se nei giochi e nei travestimenti i primi segnali emergono: ama raccogliere fiori, coi quali si orna i capelli. Nei giochi solitari agli indiani fa indossare la gonna e mette il rossetto, più a suo agio nei panni della squaw che di Toro Seduto. Finché un episodio banale sconquassa la sua mente. È Jamie Brisick, il regista del documentario, a raccontarlo: «C’era questa ragazzina, la prima cotta, con la quale Peter si apparta vicino a un lago. Si baciano, lui ha la prima eiaculazione e rimane sconvolto. Cade vittima di una spirale di panico, si convince di aver messo incinta la ragazza, pensa che Dio abbia visto tutto e che lui sarà dannato, condotto all’inferno».
Da quel giorno seguono attacchi di panico frequenti, nascono problemi d’attenzione a scuola, introversione grave. «Erano i segni della sua malattia, povero Peter, diagnosticata molti anni dopo: disturbo ossessivo-compulsivo», sospira Windina. Nello stesso anno arriva anche la folgorazione però, il ritrovamento casuale di una navicella spaziotemporale in grado di condurlo in un luogo lontano, da sé e dal mondo. Vede passeggiare sulla spiaggia di Surfer’s Paradise un ragazzo di Sydney con una tavola di balsa sottobraccio e prova la sua onda inaugurale. Nel 1965 partecipa alla prima gara, vince il Queensland juniores e guadagna il diritto a giocarsela ai campionati nazionali di Sydney: «Le onde lo proteggevano dalla pazzia. La tavola era il suo unico amico».
Appena mette piede sulla terraferma, però, le cose girano per il verso sbagliato: «Appena arrivato nella capitale tre avversari lo aggredirono in una stradina isolata e lo ammazzarono di botte. Due lo tenevano stretto e un terzo, coi capelli rossi e le lentiggini, a riempirlo di calci e pugni. Me lo ricordo come fosse ora». Peter finisce all’ospedale, dove viene medicato con quattro punti di sutura alla bocca e dodici sulla fronte. Il medico gli ordina di ritirarsi ma lui niente, sceglie di andarsi a cercare una rivincita dolceamara, e vince.
Seguono successi, fama, soldi. «Anche se Peter rimaneva sempre un goffo, un disadattato. Doveva recitare la parte del bevitore, del donnaiolo, dell’attaccabrighe, quando il suo animo era femminile. La sua vita era una grande bugia». L’anima instabile lo porta ad alternare grandi tonfi a grandi vittorie. S’iscrive all’Accademia d’arti drammatiche di Sydney e comincia a recitare in qualche spot pubblicitario. Nel 1969, racconta, viene avvicinato da alieni in pieno oceano, che gli affidano una missione misteriosa, «che comprenderà molto più avanti».
Finisce in una casa di cura per malattie mentali a Sydney da cui scappa dopo due settimane, saltando dalla finestra. Poi parte per sei mesi con un operatore di ripresa e gira un documentario su se stesso, intitolato semplicemente Drouyn, nel quale afferma di sentirsi un pioniere, un idolo, importante per lo sport mondiale almeno quanto lo è stato Muhammad Ali.

LA REINVENZIONE DEL SURF
Il metodo Stanislavskij imparato a scuola lo «applica alla sua disciplina sportiva, e s’inventa il method surf. «Mi concentravo, e diventavo tutt’uno con l’Oceano». Nel 1976 il brand d’abbigliamento Stubbies gli chiede d’organizzare una gara e lui crea la formula man-on-man, con due surfer a contendersi il turno, la più usata ancora oggi. Nel 1984 mette in piedi il primo “stadio del surf”, con ballerini e delfini ammaestrati, giochi laser di luce e un’orchestra dal vivo, ma una tempesta s’abbatte sulla località di Pallina e la manifestazione viene annullata. Si apre per lui una stagione confusa, in cui fa mille lavori: il tassista, il venditore di polizze assicurative, finisce a dormire in auto e in un parcheggio per roulotte. «In quel periodo è avvenuta la sua prima morte. A 36 anni, come Marilyn Monroe, pensa che coincidenza». Nel 1989 va in Sud Africa nel tentativo esplicito di trovare moglie. La sua bellezza lo aiuta nell’impresa: si sposa, poi divorzia, ma riesce ad avere un figlio: «Oggi Zachary ha 23 anni e vive di fianco a casa mia. Lui mi chiama ancora papà».
Westerly ricorda perfettamente il momento dell’epifania, l’attimo esatto in cui Peter è morto. Luglio 2002: il solito giro in surf tra le onde di Burleigh Heads, praticamente davanti a casa. Ne arriva una perfetta, che lui cavalca come farebbe il suo eroe, il torero Juan Belmonte, simulando il gesto teatrale con cui s’infilza un toro con la spada. Ma è il bestione d’acqua ad avere la meglio: Peter Drouyn viene sbattuto contro il fondale e perde i sensi.
«Al risveglio vedeva tutto bianco, aveva un timpano perforato e una commozione cerebrale. Ma soprattutto, non era più lui». Sulla via di casa compra un costume intero da donna, rosa, che si prova nella sua camera da letto, accompagnato dal suono della musica classica. E a mezzanotte in punto, giura, diventa Westerly, prendendo in prestito il nome dal vento di ponente che s’abbatte sulla costa del Queensland: «Ho cominciato a truccarmi, a tingermi i capelli. Condividevo con Peter i ricordi, ma non la personalità. Andavo in spiaggia di notte a ballare, vestita da spagnola, come in trance. Se vedevo un’ombra mi tuffavo in mare e aspettavo finché l’intruso non se ne fosse andato via». Anche i medici si dimostrano increduli, di fronte al cambiamento: «Il mio corpo da gorilla cambiava velocemente: le gambe si sono assottigliate, i fianchi si sono allargati, il sedere s’è alzato».
Un mistero psichico e antropologico che l’ha portata a ricalcare l’immagine di Marilyn Monroe, personaggio che emula nelle movenze e nell’abbigliamento dopo aver visto milioni di volte A qualcuno piace caldo e Diamonds are a Girl’s Best Friends, e che è convinto di reincarnare: «Lei ha terminato il suo percorso artistico bruscamente, e io adesso lo devo continuare. Il suo spirito m’assiste. Credo di avere una missione ultraterrena: riportare nel mondo il potere della femminilità». A dicembre 2012, grazie ai soldi dei produttori americani del film, Westerly si è fatta ricoverare al Yanhee International Hospital di Bangkok e ha completato la sua transizione. Un’operazione durata sei ore, con mesi di recupero che descrive come un «inferno di dolore». Ne è valsa la pena: «Non ho più attacchi di panico, potrei stare in piedi di fronte a milioni di persone senza paura. È come se fossi la sorella gemella di Peter. Con Marilyn che orchestra i suoi sogni attraverso di me». In mare ci torna ancora, ma con un’urgenza diversa: «Westerly non sente più il bisogno impellente di dominarla, quella forza. E quando lo fa, il suo stile è tutto diverso rispetto a quello di Peter: lei si muove in modo più sensuale, le braccia sono eleganti, le gambe delicate. Lei surfa da signora, adesso».