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 2014  aprile 15 Martedì calendario

ROMA —

Con un eccesso di confidenza e una sorprendente sottovalutazione dell’intelligenza e delle capacità manovriere dell’uomo, la latitanza di Marcello Dell’Utri è stata data per conclusa nel momento esatto in cui è in realtà cominciata: il giorno del suo arresto in una suite dell’hotel Phoenicia di Beirut. La partita dell’estradizione — per quanto ne riferiscono fonti qualificate del nostro ministero di giustizia — rischia di essere infatti assai lunga. Soprattutto se la sentenza definitiva della Cassazione dovesse slittare, accogliendo la tempestiva richiesta di rinvio dell’udienza avanzata dalle difese per motivi di salute di uno degli avvocati. Insomma, nella scelta del Libano, Marcello Dell’Utri ha usato del metodo. Nell’accordo bilaterale firmato tra Italia e Libano nel 10 luglio del 1970 e entrato in vigore il 17 maggio 1975, si nasconde infatti la gabola che può trasformare
il giudizio di estradizione di Dell’Utri da una formalità (nel caso di una sua condanna definitiva da parte della Cassazione) in un nuovo giudizio di merito e per giunta in quel di Beirut. Enzo Cannizzaro, ordinario di diritto internazionale alla Sapienza, ascoltato accademico dei nostri ministeri nelle controversie che in questi ultimi anni hanno riguardato i più recenti e ingarbugliati procedimenti di estradizione, non ci gira intorno. «In quel trattato — spiega — tutti hanno rivolto lo sguardo all’articolo 16, ignorando l’articolo 21. Che nel caso Dell’Utri, rischia di essere la norma decisiva». Ebbene, l’articolo 21 prevede che qualora, come nel caso dell’ex senatore, il cittadino da estradare non sia stato condannato in
via definitiva, il Libano non abbia alcun obbligo di dare corso alla procedura. «In questo caso — recita la norma — l’estradizione verrà concessa soltanto se le autorità libanesi riterranno che esistono prove sufficienti che avrebbero consentito il rinvio a giudizio dell’imputato
in Libano».
Immaginiamo dunque il quadro. Se non dovesse arrivare la condanna di Dell’Utri in Cassazione o comunque i tempi della pronuncia (quale che essa sia) non dovessero essere rapidi, la procedura di estradizione si incardinerà in modo tale che l’ex senatore affronterà un nuovo giudizio di merito di fronte ai giudici libanesi.
C’è di più. Per potersi pronunciare nel merito della sufficienza o meno delle prove, c’è un passaggio ulteriore e obbligato che porterà via, nelle migliore delle ipotesi, mesi. Ancora Cannizzaro: «Andrà tradotto in arabo il fasci-
colo processuale di Dell’Utri. Perché, all’articolo 21, il trattato fa appunto riferimento, nel caso di non condannati in via definitiva, al merito delle prove. Alla loro sufficienza». E dunque, testimonianze, intercettazioni e quant’altro è nel fascicolo del dibattimento. Uno sforzo titanico e complesso, che, potenzialmente, aprirà varchi per far valere, di fronte ai giudici libanesi, possibili vizi di forma, oltre che obiezioni di merito.
Per altro — come osservano ancora fonti ministeriali — non è affatto detto che, anche di fronte a una sentenza di Cassazione che renda definitiva la condanna, la procedura di estradizione
non possa incagliarsi di fronte all’arma finale che le difese di Dell’Utri potrebbero decidere di giocare di fronte ai giudici libanesi. Contestare la «natura politica » del processo e della pronuncia a carico dell’ex senatore. Anche in questo caso, infatti, si aprirebbe un giudizio di merito sulla qualità e natura delle prove a sostegno della condanna.
Altro che ingenuità, insomma. La scelta di Beirut ha un senso. Esattamente come quello di farsi “sorprendere” in un hotel a cinque stelle, con carte di credito e contanti sufficienti a garantire un lungo soggiorno. Come spiega una fonte inquirente italiana, la legge libanese prevede infatti che, qualora i tempi dell’estradizione si allunghino, l’imputato possa ottenere un obbligo di dimora nell’ultimo domicilio conosciuto in Libano. Il Phoenicia, appunto.