Fabrizio Bentivoglio, la Repubblica 15/4/2014, 15 aprile 2014
UN PATRIARCA GENTILE E MALINCONICO
(Carlo Mazzacurati) -
Il posto è piazza del Popolo a Roma, siamo nel 1998 e seduti a un tavolino del caffè Rosati ci siamo Carlo e io che parliamo. È il nostro primo incontro ma sembra di conoscersi da sempre, ci separano pochi mesi, potremmo essere compagni di classe. Si parla di tutto, non solo del film che sta preparando: la storia di due amici allo sbando, che si ritrovano quasi per caso a rubare una reliquia di Sant’Antonio da Padova nell’omonima basilica. Si parla anche di come la nostra generazione abbia sempre avuto una sorta di pudore nel far ridere, quasi vergogna. Gli racconto cosa si è sentito dire un regista nostro coetaneo da un suo amico d’infanzia: «Pasquale, ma com’è possibile che noi quando ci vediamo ci facciamo sempre certe risate, e invece quando poi vado a vedere i tuoi film io non rido mai!?».
Carlo ride di gusto, in un modo tutto suo, strizzando gli occhi fino a farli scomparire tra la fronte e le guance, e poi mi confida che anche lui ha sempre avuto quest’impressione, di essersi volutamente frenato, come chi tiene un braccio legato dietro la schiena e che questa è la prima volta, il primo film, in cui si sente le mani libere. Questa volta vuole che si rida e per farlo ha scelto Antonio Albanese, un fuoriclasse in materia, e me, che invece vengo considerato dai più come un attore “drammatico”. «Io ti vedo anche buffo invece », mi dice e dicendomelo ride. E io credo sia stato lì che mi sono innamorato. Era facile innamorarsi di Carlo. Quando poi sono arrivato a Padova, ho scoperto che anche i suoi amici più cari, ognuno con la sua differente gradazione, erano tutti innamorati di lui. Anche Antonio (che aveva già girato un film con lui) era innamorato di Carlo.
Aveva chiesto ad Albanese e a me di andare a Padova qualche tempo prima delle riprese, per acclimatarci, per sciacquare i panni nel Bacchiglione, il fiume di Padova, e ritrovare quella musica della lingua veneta, ma anche quei sapori, quegli odori… la laguna… le persone… le loro storie.
Potevi stare le ore a sentir parlare Carlo. Ti colpivano di lui la pacatezza dell’eloquio e l’acutezza delle sue riflessioni, il travolgente senso dell’umorismo e la dolce malinconia di certi suoi silenzi. La naturale propensione a capire gli ultimi e gli infelici. La pazienza da entomologo nel guardare alla sua bella e ricca terra, il Veneto, recependo con grande anticipo le profonde contraddizioni di un luogo che si stava già inesorabilmente trasformando in Nord-Est.
Carlo era un poeta e parlare con lui era nutriente tanto quanto un bel piatto di baccalà mantecato con la sua fetta di polenta abbrustolita vicino. Aveva la stazza, umana prima ancora che fisica, di un patriarca buono. Era il fratello che ogni figlio unico ha sempre desiderato avere. Era il padre da cui ogni orfano sogna un giorno di essere adottato.
Per questo adesso ci manca, e non avremmo molta voglia di ridere. Se non fosse per questo suo film, La sedia della felicità , che ci invita a farlo in modo così disarmante.