Marco Zatterin, La Stampa 15/4/2014, 15 aprile 2014
GAP DI GENERE NEGLI STIPENDI PER ALTRI SETTANT’ANNI ALMENO
Saremo tutti veramente uguali solo nel 2084, anno di centenario orwelliano in cui le donne e gli uomini dovrebbero avere il medesimo salario per il loro lavoro in ufficio, in fabbrica o dove il futuro avrà disposto. «Ci vorranno 70 anni per la pari retribuzione fra i sessi», stima la Commissione Ue, senza troppo entusiasmo. Trenta ne occorreranno perché il 75% per cento di tutte le signorine, o signore, abbiano un posto. E venti perché nei parlamenti del vecchio continente almeno il 40% dei seggi sia coniugabile al femminile. Una marcia decisamente lunga, segno che le cattive abitudini sono davvero lente da smaltire.
È un processo lento. Ma qualche progresso si vede. Un rapporto della Commissione Ue rivela che nel 2013 il divario retributivo di genere a livello europeo si è ridotto di mezzo punto, anche se i salari «rosa» restano in genere il 16,4 per cento più bassi per ore lavorate rispetto a quelli del cosiddetto «sesso forte». Allo stesso tempo è cresciuto il numero di donne salite ai vertici delle grandi aziende: oggi sono il 17,8% dei consiglieri, dato che si confronta con l’11,8 di tre anni fa. Dall’ottobre 2010 il numero si è gonfiato di 2,2 punti percentuali nella media dei dodici mesi. Siamo distanti dal 40% indicato come obiettivo dalla proposta intavolata dalla commissione Ue nell’ottobre 2012. «Però il cambiamento inizia a essere evidente», dicono a Bruxelles.
Anche in Italia. «Avete fatto progressi con la legge sulle quote rosa», assicura la responsabile Ue per i diritti dei cittadini, la lussemburghese Viviane Reding. Non commenta le questioni di attualità, ma nel suo staff si registra «una forte curiosità» per la tornata di nomine che decolla in queste ore a Palazzo Chigi e le promesse di un rosa dilagante fatte dal premier Renzi. Nell’attesa, si scopre che siamo sedicesimi quanto a presenza femminile nei consigli delle società quotate. Il dato è del 12,9 per cento, contro il 29,1 dei finlandesi e il 26,8 della Francia. Dall’ottobre 2012 il miglioramento è stato superiore alla media, più 1,2 per cento. È la metà della Germania, ma ben più del Regno Unito che ha messo a segno un risultato negativo.
Quello che ci mette fuori gioco è il «gender gap», termine inglese che indica la differenza di paga fra i due sessi. Sebbene da noi sia relativamente ridotto (6,7 punti, il quarto miglior dato europeo contro una media di 16,4), la differenza fra gli uomini e le donne attivi che hanno un posto è la seconda peggiore dell’Unione: 70 contro 49, un abisso di ventuno punti. Malta è l’unico paese ad avere un dato più elevato (29), mentre la media Ue è 12, e i paesi più avanzati sono tutti sotto i dieci. Vuol dire che c’è ancora parecchio da fare.
In generale la Commissione Ue rileva che le donne europee tendono più spesso a lavorare a tempo parziale (il 32% contro l’8,2% degli uomini) e interrompono la carriera per occuparsi di altri membri della famiglia, il più delle volte di figli. Ne consegue un divario di genere anche sul fronte delle pensioni che sfiora il 40 per cento. Le vedove e i genitori «single» - che il più delle volte risultano essere madri - sono tra i gruppi più vulnerabili, e oltre un terzo delle famiglie monogenitoriali ha un reddito considerato insufficiente.
Il Welfare non gira come dovrebbe. E neanche le politiche sociali che, va rammentato, sono prerogativa nazionale e non comunitaria. Sebbene sia aumentato, il tasso d’occupazione femminile si attesta tuttora al 63% contro il 75% per gli uomini. Questa situazione è dovuta soprattutto alla crisi economica, che ha visto peggiorare l’occupazione maschile. Non buon motivo per fare festa, questo pare davvero chiaro.