Adriano Sofri, la Repubblica 14/4/2014, 14 aprile 2014
IL SANGUE E IL CUORE
Di colpo, affascinati, spaventati e ignoranti come siamo, i più, di bioingegneria, siamo costretti a chiederci con che sentimenti, con che orientamento morale e con che coraggio umano accoglieremmo la notizia che la nostra creatura, le nostre creature, non sono biologicamente nostre, bensì di nostri simili che hanno affrontato la nostra stessa trafila medica per il desiderio di diventare madri e padri. Le adozioni ci hanno preparati, ma fino a un certo punto.
Per un padre, l’orgoglio umanissimo e anche un po’ losco, di vedersi continuato nel proprio sangue, in qualcuno che gli somigli, e comunque di non esser padre per un equivoco terribile, sarebbe messo a dura prova. Ma un uomo non ardisce di figurarsi che cosa voglia dire averla dentro di sé, a diventare parte e prender possesso del proprio corpo, la nuova creatura figlia d’altri: le due nuove creature dell’avvenimento romano. Il film di Hirozaku Koreeda che ha commosso il pubblico, Father and Son, racconta soprattutto le due paternità diverse, il come si diventa padri. Come si diventi madri, non proviamo nemmeno a immaginarlo. Di neonati scambiati in culla sono piene la mitologia, la letteratura, il cinema, la cronaca e la vita. Nella vicenda di Mazara del Vallo (2000), genitori coetanei – e poveri– vollero mettersi alla prova di una affettuosa convivenza dopo aver scoperto che le loro bambine di tre anni erano state scambiate, per risarcirle con una sorellanza speciale. Ora la scelta, se così è, dei genitori romani di accogliere i loro figli gemelli merita non solo rispetto – rispetto meriterebbe anche un’altra decisione – ma ammirazione e augurio. E intanto ci si chiede a quale inesplorata casistica espongano le nuove frontiere della scienza e gli errori di percorso della loro attuazione. Il diritto dovrà occuparsi delle ipotetiche rivendicazioni dei titolari originari degli embrioni scambiati? E le coppie reciprocamente coinvolte si interrogheranno sull’eventualità di “restituirsi” i figli una volta venuti alla luce? E che cosa rende più figli, oltre che genitori: la costituzione genetica, o l’essere stati accolti e portati in seno e amati? Dopo il primo sbalordimento e sbigottimento, anche, l’avvenimento romano mette alla prova, certo, l’accuratezza e la responsabilità delle strutture sanitarie, le procedure, l’informazione trasparente di chi vi ricorre: temi cui siamo, i più, impreparati, e dobbiamo dunque disporci a un capitolo così delicato dell’educazione permanente. Alla prova del cuore e dell’intelligenza siamo invece alla pari. Ho cercato in fretta in rete i precedenti del caso romano: ce ne sono, naturalmente. A Hong Kong, in un famoso centro per il trattamento dell’infertilità, «i responsabili della clinica – dice troppo seccamente la notizia – accortisi dell’errore, hanno provveduto immediatamente all’espianto degli embrioni, che non sono più stati utilizzati: in altri termini, la donna ha dovuto abortire». Un caso americano, dell’Ohio, divenuto celebre perché la signora coinvolta, Carolyn Savage, ha scritto un libro, è così riassunto dalla protagonista: «Nel febbraio 2009, attraverso il processo denominato trasferimento dell’embrione congelato, gli embrioni di un’altra coppia sono stati trasferiti per errore nel mio corpo. Otto mesi dopo ho dato la nascita a un bambino che abbiamo restituito ai suoi genitori biologici, Shannon e Paul Morell, pochi minuti dopo il parto». Dice ancora la signora, a nome proprio e del marito, Sean: «Noi crediamo che la tecnologia della fertilizzazione in vitro sia un dono di Dio, proprio come la cardiochirurgia, la chemioterapia e gli antibiotici. Sappiamo anche che la scienza della riproduzione medicalmente assistita pone questioni etiche che esigono una profonda riflessione. Sono in molti a condannare i trattamenti disponibili per le coppie infertili perché sono convinti che “interferiscano con la natura” o “trasgrediscano il ruolo di Dio nella creazione”. Sean e io dissentiamo pienamente. Quei trattamenti ci hanno consentito di mettere al mondo nostra figlia, e non abbiamo dubbi che lei interferirà positivamente con la vita delle persone che incontrerà. Indipendentemente dall’opinione di ciascuno sulle tecniche riproduttive assistite, è nel miglior interesse di professionisti e pazienti che i protocolli garantiscano la sicurezza della paziente; che le comunicazioni attorno agli embrioni umani siano chiare e concise; e che ci sia trasparenza completa nelle procedure».
Anche i coniugi Morell hanno scritto un libro. Meno di due anni dopo aver “restituito” il piccolo Logan, frutto dello scambio di embrioni, Sean e Carolyn Savage hanno avuto un nuovo parto, una coppia di gemelle passate attraverso il grembo di una madre surrogata, Jennifer.
Adriano Sofri, la Repubblica 14/4/2014