Alessandro Pasini, Corriere della Sera 14/4/2014, 14 aprile 2014
«IMPARO IL BASKET, PERÒ INSEGNO LO STILE»
DAL NOSTRO INVIATO SAN ANTONIO — Scena prima. Nello spogliatoio degli Spurs c’è gente che viene e che va: giocatori, tecnici e anche giornalisti, nonostante manchi appena un’ora all’inizio della partita, la terzultima di regular season, con i Phoenix Suns. Un altro mondo. E altri tipi di atleti. Marco Belinelli, per esempio. Ormai un nome grosso della Nba, vincitore della gara da 3 punti all’All Star Game, pedina fondamentale nella squadra più forte della lega insieme a Miami. Eppure, rilassato e sorridente, ti fa «ehi, come va?» e sembra che stia per andare a farsi due tiri al playground con i vecchi amici a San Giovanni in Persiceto.
Noi bene e lei? Se vincete siete primi, con il vantaggio del campo in tutti i playoff.
«Non sarebbe male, ma siamo forti anche in trasferta. Nessun problema».
Ogni anno dicono che gli Spurs sono bolliti, invece...
«Invece è l’esperienza che conta. Questa squadra sa come arrivare in forma al momento giusto».
C’è poi da rimediare al suicidio della finale 2013: sopra 3-2 e più 5 a 28 secondi dalla fine di gara 6, San Antonio perse e poi cadde nella bella con Miami.
«Io non ero ancora qui: fu tremendo vederla in tv, immagino per i ragazzi. Coach Popovich ci ha fatto rivedere quelle immagini a inizio stagione per farcele tenere in mente. Sta funzionando».
Il suo trionfo nella gara da 3 punti ha fatto ricredere tante persone. Molti hanno detto: allora non era lui il più scarso degli italiani in Nba dietro Gallinari e Bargnani...
«Io voglio solo essere felice e non cerco rivincite su nessuno. Casomai mi rendono orgoglioso le recenti parole scritte da un grande come Ettore Messina».
Leggiamole: «Marco guarda sempre avanti».
«Giusto. Zero rimpianti, penso sempre a migliorarmi».
«Marco prova sempre a fare le cose difficili».
«Sennò non sarei in Nba da 7 anni e non sarei diventato il giocatore completo che sono».
«Marco sa sgomitare».
«Di base sono timido e tranquillo, ma so sempre cosa voglio».
«Marco non si dà pace finché non raggiunge il risultato».
«Farsi il mazzo, si può dire? è la chiave per tutto. Lo facevo da bambino quando guardavo Michael Jordan in tv e continuo oggi con l’esempio in palestra di Duncan, Parker, Ginobili, gente che ha vinto tutto».
Che tipi sono?
«Ci frequentiamo anche fuori. Il più bel gruppo che ho incontrato in America».
All’epoca di New Orleans (2010-12) le fece i complimenti anche Obama. Un intenditore.
«Clamoroso, eh? Non me lo scorderò mai più».
San Francisco, Toronto, New Orleans, Chicago, San Antonio. Il posto migliore?
«Tutte belle città, ma scelgo San Francisco».
E qui com’è?
«Non male. Ma c’è un problema».
Quale?
«Io amo un certo stile, la moda, in futuro mi piacerebbe creare una linea di abbigliamento. Qui però è profondo Texas, vedo solo stivali, cinturoni, cappelli da cowboy. Certi miei compagni ve li raccomando... Non si possono guardare».
Alla moda, ma senza tatuaggi. Una mosca bianca.
«Mai piaciuti. Forse servirebbe una grande occasione».
Come un titolo Nba?
«Mi tocco, posso? E ora vado a giocare».
Scena seconda. San Antonio ha vinto 112-104, anche senza Duncan e Parker a riposo. Sotto di 21 nel primo tempo, la rimonta è partita nel terzo quarto, quando anche Belinelli è riemerso dal nulla generale: suo il canestro del primo sorpasso, sua una tripla per l’allungo decisivo dentro un’arena impazzita, già in clima da finale. Marco è soddisfatto ma con misura, perché questa è solo una tappa di un percorso ancora lungo.
Dall’abisso alla gloria. In fondo, una partita-metafora della sua storia...
«Quando parti male devi sempre stare nel match con la testa, senza paura. Abbiamo reagito da squadra. Gli altri quando sono nei guai sanno dare palla solo a Kobe Bryant o LeBron James. Noi abbiamo tante alternative. È il nostro marchio di fabbrica».
Popovich nell’intervallo che vi ha detto?
«Era incazzato, giustamente. Io poi non mi offendo: le urla a uno come me servono. Mi stimolano».
Greg Popovich, 4 titoli con gli Spurs, è il guru burbero e geniale di cui narra la leggenda?
«Pop è la nostra guida spirituale, il boss, il padre. Ma non è solo urla. È un signore, ci aiuta e ci rispetta».
Poco fa, finito il match, ha detto: «Riposarci nelle prossime due partite perché siamo qualificati? E perché? Il riposo è un concetto sopravvalutato».
«Ha ragione. Questa è la filosofia americana. Meglio giocare e impegnarsi sempre. Così non perdi ritmo e concentrazione».
Tra partite, viaggi, vita da vivere, come vede l’Italia da così lontano?
«Amo l’America, ma quando torno ritrovo con piacere amicizie, cibo, spirito, radici. Dovessi scegliere, non saprei dove vivere in futuro. Ma ho 28 anni, c’è tempo».
Magari trova una moglie e una famiglia americana...
«Non penso proprio. Per ora mi diverto e basta».
O magari farà il coach.
«Neanche quello fa per me. Anche se il basket non smetterò mai di amarlo. Un canestro, una palla rubata, l’armonia di squadra mi fanno e mi faranno battere sempre il cuore».
Del basket italiano che dice?
«Seguo poco. So che Milano va bene e sono contento: se vincesse campionato o Eurolega sarebbe un bene per tutti».
E se San Antonio vincesse l’anello?
«Sarebbe tutto. L’unica cosa che conta. Il senso di una vita».