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 2014  aprile 14 Lunedì calendario

LA MOGLIE: «MACCHÉ LATITANTE SU DI LUI SOLTANTO BUGIE» TUTTI I MISTERI DELLA FUGA


Doveva tornare a Milano per le feste pasquali da Santo Domingo dove ormai vive Miranda Ratti, la moglie di Marcello Dell’Utri ieri decollata invece da New York per Beirut. Stessa meta di uno dei quattro figli, Marco, partito da Milano. Entrambi diretti nella città dove è stato rintracciato l’ex senatore. Senza voglia di commentare l’arresto. Ma è urtata la signora Dell’Utri dal marchio di «latitante»: «Se avesse voluto davvero fuggire, non se ne andava certo in Libano parlando al cellulare e utilizzando la sua carta di credito. Bugie, bugie, cattive interpretazioni...». Echeggia amarezza nelle conversazioni con gli avvocati Giuseppe Di Peri e Rosalba Di Gregorio rimasti a Palermo. E sarà questa una delle leve da offrire al legale libanese che stamane seguirà l’udienza di convalida per il blitz scattato sabato mattina al Phoenicia dove l’imputato eccellente condannato a 7 anni è stato rintracciato e arrestato dopo un percorso a tratti avvolto dal mistero.
Il viaggio
Da Roma Alberto Dell’Utri, il fratello gemello, conferma le tappe del viaggio, dal primo spostamento verso Parigi alla meta di Beirut. Un volo raccontato da un testimone che avrebbe visto Dell’Utri e il figlio Marco in business class il 24 marzo. Perché padre e figlio sono andati a Beirut? Marco è rientrato in Italia il 3 aprile, dopo è partita la caccia con i dubbi che hanno scosso mondo politico e giudiziario per 48 ore e, infine, è arrivata la cattura grazie anche alle tracce lasciate dallo stesso imputato con telefonini e carta di credito. Dati sottolineati dal gemello: «Hanno pure detto che mio fratello aveva falsificato il nome. No. È stato semplicemente trascritto alla reception in lingua locale, come lo pronunciano».
Il fermo al Phoenicia
Al Phoenicia, Dell’Utri si è registrato con il suo passaporto. Il che vuol dire o che non stava fuggendo oppure che era sicuro di non avere problemi. Un testimone che lo ha notato a colazione ha detto che «era vestito come un turista ed era solo». Sabato gli agenti del Servizio informazioni della polizia di Beirut, una sorta di intelligence, hanno bussato alla porta della stanza e l’hanno invitato a seguirli all’ufficio centrale. In suo possesso sono stati trovati 30 mila euro in banconote da 50. «Non sto in gattabuia, mi trovo nella foresteria di una caserma e sto bene», avrebbe detto ai familiari in una telefonata autorizzata dai poliziotti.
Accuse fra magistrati
Dell’Utri, però, ha potuto allontanarsi indisturbato dall’Italia anche grazie a un corto circuito giudiziario accaduto nei primi giorni di marzo. La Procura generale di Palermo, con il sostituto Luigi Patronaggio chiese infatti il 4 marzo il ritiro del passaporto e il divieto di espatrio ai giudici della terza sezione presieduta da Raimondo Lo Forti temendo appunto un pericolo di fuga. Il rigetto della richiesta ora è contestato da Patronaggio. Posizione polemica controbattuta dal presidente della Corte d’appello, Vincenzo Oliveri, che ripercorrendo i passaggi esclude ogni responsabilità dei suoi giudici. Con una lezioncina di procedura impartita all’ufficio diretto da Roberto Scarpinato: «La verità è che l’anno scorso, dopo la condanna a 7 anni, la Procura generale chiese l’arresto e, allora, la Corte non ravvisò il paventato pericolo di fuga. Anche perché la presenza dell’imputato, fino all’ultima udienza, quella della sentenza, escludeva che ci fosse l’intenzione di scappare». E Dell’Utri non scappò. Ma, trascorso un anno, nei primi di marzo, alla richiesta di ritiro del passaporto, secondo Oliveri, il diniego era obbligato: «L’unica misura cautelare da chiedere per un imputato di concorso esterno in associazione mafiosa è il carcere. E l’accusa, invece di seguire la legittima pista indicata dai giudici della Corte, ha fatto ricorso al Tribunale del riesame, producendo le intercettazioni del fratello dell’imputato a sostegno».
Intercettazioni e Guinea
Sarebbe quindi scattata quasi una involontaria discovery su una intercettazione ambientale che però risale al novembre 2013, quando il fratello del fondatore di Forza Italia, Carlo Alberto, parla nel ristorante romano «Assunta Madre». Gli inquirenti indagano su un imprenditore calabrese, Gianni Micalusi, ma viene captata la conversazione del gemello con il titolare del ristorante, Vincenzo Mancuso, a cominciare dai riferimenti su una possibile rotta verso la Guinea: «Un Paese che concede i passaporti diplomatici molto facilmente... bisogna accelerare i tempi». E Mancuso: «Perché Marcello non si fa nominare ambasciatore della Guinea?». Non manca un riferimento di Alberto «a un personaggio che ha sposato la figlia del presidente africano...». Poi: «Marcello ha cenato a Roma con un politico importante del Libano, che si candida presidente».
Putin e Berlusconi
Non si fa il nome del politico nell’intercettazione di Alberto Dell’Utri: «Era solo un cazzeggio di Mancuso slegato da quanto accaduto cinque mesi dopo». Ma il profilo potrebbe corrispondere con quello di Amine Gemayel, uno dei candidati in corsa a Beirut. E Berlusconi, dando una spiegazione al viaggio del suo vecchio amico, avrebbe rivelato ad alcuni ospiti di Arcore un altro dettaglio misterioso: «L’ho spedito io Marcello a Beirut perché Vladimir Putin mi ha chiesto di sostenere la campagna elettorale di Gemayel». Mancano conferme. Anzi, Giovanni Toti, consigliere politico dell’ex Cavaliere, nega: «Pura fantasia, non abbiamo i soldi per finanziare la campagna di Forza Italia, figuriamoci per aiutare un partito libanese». Ma che Gemayel sia un amico di Forza Italia altri se lo ricordano. A metà marzo del 2012 proprio Gemayel, da presidente del partito Kata’eb ed ex presidente libanese era stato ricevuto da Berlusconi a palazzo Grazioli, accompagnato dall’ex ministro Scajola. Prova di una potente rete di contatti internazionali che potrebbe essere utile a Dell’Utri.