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 2014  aprile 13 Domenica calendario

MURILLO

& C, I PICCOLI BASQUIAT –

Meteore o autentici talenti? Potremmo muovere dal prologo di un romanzo di Michel Houellbecq, La carta e il territorio . Il protagonista, Jed Martin, sta eseguendo il ritratto di Hirst e di Koons. Entrambi sono vestiti di nero. Dietro di loro, una grande vetrata, che dà sullo skyline di una città mediorientale: «Ci si sarebbe potuti trovare nel Qatar o a Dubai». Dunque, eccole: due tra le più controverse ed «epocali» figure dell’arte degli ultimi due decenni. E oggi? Quali sono i nuovi Hirst e i nuovi Koons? E i nuovi Cattelan e Takashi Murakami?
Si sa, il pubblico e i media hanno bisogno di miti e di eroi sempre diversi: da celebrare o da rifiutare. Questa necessità è condivisa dal mercato, che, come ha ricordato Jerry Saltz, sovente, «offre asilo politico ai comportamenti più idioti, sale mentre noi scendiamo, è tanto spavaldo e invadente da costringere gli artisti a ragionare su questioni come celebrità, soldi e successo». Il mercato sembra oscillare tra forze opposte. Per un verso, agisce come un organismo auto-replicante: appena capisce che il lavoro di un artista «funziona», invita quell’artista a ripetersi ad oltranza. Per un altro verso, insegue l’ultima trovata, la provocazione più audace, lo scandalo più estremo; spesso, trasforma la categoria di avanguardia in mero slogan, in vuoto brand. Accade così che, ciclicamente, galleristi, mercanti e dealers scelgano personalità «nuove», facilmente manipolabili: le facciano uscire dall’anonimato; le esaltino; le impongano in prestigiosi musei e in autorevoli riviste; si impegnino per farne lievitare le quotazioni; e, infine, le brucino; in attesa di trovare altri artisti da cannibalizzare. Questo il destino che attende alcuni tra i più apprezzati enfants terribiles di oggi?
Alcuni nomi. Jacob Kassay: trentenne newyorkese, trapiantato a Los Angeles, abile nel coniugare semplificazioni minimaliste e improvvise rivelazioni figurali. Lucien Smith: venticinquenne di Los Angeles, trasferitosi a New York, autore di quadri caratterizzati da stratificazioni di oli, di paste e di detriti, con rimandi all’Action painting. Sterling Ruby: classe 1972, atelier a Los Angeles, sapiente nell’attingere a suggestioni diverse (dal graffitismo, alle culture hip-hop, a quelle punk), capace di misurarsi con materie diverse (tele, ceramiche, bronzi, cartoni, tessuti) e con tecniche eterogenee (pittura, collage, video), pronto anche a dialogare con la moda (per Ralf Simons ha creato abiti e jeans), architetto di uno stile fatto di graffiature e di inesattezze.
Ma, soprattutto, Oscar Murillo. Secondo i suoi estimatori, è il Basquiat del XXI secolo. Ancora difficile dire se sia solo un epigono del graffitista statunitense. Ma la sua storia è un’avventura da raccontare. Nasce nel 1986 a La Paila, una piccola città colombiana. A dieci anni, con i genitori, si trasferisce a Londra. Quello spostamento determina un trauma: si sente solo. Si dà molto da fare. Colpisce il suo essere infaticabile, discreto e ambizioso. Risiede a East London, in una zona culturalmente stimolante, ricca di piccole gallerie. Comincia a dipingere.


Marzo 2012. Le sue tele — esposte all’Indipendent Art Fair di New York — vengono scoperte da Donald e Mera Rubell, influenti collezionisti di Miami, proprietari di opere di Haring, Basquiat, Price e Cattelan. I Rubell visitano lo studio «provvisorio» di quel misterioso colombiano, all’Hunter College di New York. Ne restano sedotti: «Siamo arrivati alle nove di mattina. Lo abbiamo trovato esausto, ma lucido. Era rimasto sveglio per 36 ore. E aveva dipinto molte tele, come in trance. Ci ha sconvolto. Abbiamo parlato per ore. Nei suoi quadri abbiamo visto la stessa energia di Basquiat».
Un incontro decisivo. Murillo viene invitato dai Rubell a Miami, dove rimane per più di un mese. Espone a Miami Art Basel. Da quel momento è corteggiato da tutti. Lo elogiano quotidiani come il «New York Times» e riviste come «Artforum». Gli viene dedicata una mostra dalla Serpentine di Londra. Entra nella scuderia della potente galleria di David Zwirner. Sfruttando il boom del collezionismo latino-americano, si impone anche nelle aste. Fino al 2011 i suoi quadri sono venduti per circa 5.000 dollari: in tre anni, il loro valore è decuplicato. Qualche numero. Christie’s, Londra, giugno 2013: un Untitled stimato 20-30.000 sterline è battuto per 253.875 sterline. Sempre Christie’s, New York, settembre 2013: un dipinto raggiunge i 200.000 dollari. Ancora Christie’s, Londra, febbraio 2014: Burrito è venduto per 322.870 sterline. Il medesimo successo si ha da Sotheby’s: Champagne raggiunge le 212.000 sterline.
E «il più giovane artista classificato tra le migliori performance del 2013» (secondo «Artprice») come reagisce a questo rapidissimo trionfo? Cerca di rimanere se stesso. Nonostante i tanti corteggiamenti, egli è ancora timido e riservato. Frequenta poco il jet set. Si «nasconde» dentro la comunità dei colombiani di Londra. Non fa il divo. Indossa jeans trasandati, magliette, cappellini da baseball. Quando gli chiedono se teme le volubilità del mercato, risponde (mentendo?): «Non ci penso mai». Ma — occorre chiedersi — al di là delle speculazioni commerciali, siamo al cospetto di un artista di qualità?
Contrariamente a quel che vorrebbe far credere, Murillo non è affatto un «istintivo». Conosce bene la storia dell’arte del secondo dopoguerra. In particolare, si ispira a Schnabel. E a Basquiat, che «fu un’iniezione di adrenalina nel sonnacchioso mondo dell’arte di allora, una spada (…) sulla testa dell’establishment bianco» (Saltz). Sulle orme di Schnabel e Basquiat, Murillo si considera essenzialmente un pittore, ma vuole «declinare» la pittura su registri diversi. Nella sua ampia officina di East London — disseminata di colori, di ferri e di bastoni —, cura da solo ogni dettaglio. Cuce insieme pezzi di tele, che poi stira con il ferro. Poi, inizia a dipingere, non con un pennello, ma con un bastone. Sovente, incastona nelle superfici materiali riciclati come scatole, lattine, etichette di caramelle. Costante l’affiorare di grafie e di scarabocchi.
Questa urgenza nel reinventare un genere classico come la pittura si può ritrovare anche nelle sperimentazioni affidate ai video, alle installazioni e alle performances. Ad esempio, Murillo ha trasformato una galleria in una sala di yoga, con quadri sistemati a terra, simili a stuoie calpestabili. Ha organizzato eventi nei quali i suoi amici colombiani si sono mescolati al jet set dell’arte, tra concorsi di danza e karaoke. Adesso si sta dedicando a una «situazione» bizzarra: alcuni suoi connazionali useranno una macchina per fare il cioccolato come se fosse una scultura. Inoltre, spesso, collabora con gli asili per progetti originali: i banchi delle scuole vengono coperti da stoffe sulle quali gli studenti possono disegnare. In questo fervore, non si avverte ancora una precisa identità stilistica. Murillo sembra passare (troppo) liberamente da un territorio a un altro. Eppure, alcuni tratti restano costanti: il rifiuto dell’equilibrio e dell’esattezza formale; la predilezione per le disarmonie, per le imperfezioni, per il non-finito; la sapienza nel fondere un’iconografia «barbarica» e abbandoni astrattisti. Al di là dei diversi supporti di cui si serve, egli pensa il fare arte innanzitutto come una pratica testimoniale: un modo per confessarsi. Vuole trasformare la sua solitudine e la sua emarginazione in slancio poetico. Dipinge in fretta, con rabbia e veemenza, senza esitazioni. Inventore di una sintassi senza grammatica, elabora composizioni dionisiache, nelle quali si affida alla logica dell’improvvisazione. Talvolta, in lui, si coglie una sorta di inautenticità: alcune sue opere riecheggiano stancamente il furore di Basquiat, risultando piuttosto prevedibili. Tant’è che, in occasione della sua prima personale a Los Angeles, David Pagel, sul «Los Angeles Times», ha scritto: «Un suo quadro è meno convincente di un solo centimetro di Basquiat».
Nonostante alcune ingenuità, Murillo è scaltro, intelligente. Possiede una virtù di cui era privo Basquiat: il senso della misura. Ora sta provando a resistere a quello spietato tritacarne che è il mercato. Un art adviser esperto come Allan Schwartzman lo ha messo in guardia da rischi e da insidie. Ha detto: «Gli artisti che ottengono una simile attenzione in tempi così veloci sono destinati al fallimento». Murillo ha replicato: «Sono questioni che non mi riguardano. Il sistema dell’arte non ha a che fare con me. Io lavoro soltanto. Cerco di rimanere normale e di difendere quello che ho costruito».