Annamaria Piacentini, Libero 12/4/2014, 12 aprile 2014
GIANGRANDE E MARTINA UN ANNO DOPO «È DURISSIMA MA NON MOLLIAMO»
Il 28 aprile del 2013il brigadiere Giuseppe Giangrande, in forza al sesto battaglione antisommossa a Firenze, era in missione nella capitale, davanti a Palazzo Chigi, durante il giuramento del governo Letta. Colpito vigliaccamente a bruciapelo da Luigi Preiti, a cui non aveva concesso di passare lo sbarramento, è stato ricoverato d’urgenza al Policlinico Umberto I ̊. Il 7 maggio è stato poi trasferito nella Clinica di Montecatone di Imola per la riabilitazione. Sei mesi su un lettino sotto osservazione di medici che hanno tentato di tutto per curarlo nel modo migliore. Ma quella maledetta pallottola era entrata dal collo, terminando la sua corsa nelle vertebre. Aveva un sogno, Giuseppe: passare il Natale nella casa di Prato, insieme alla figlia Martina. Ci era riuscito, circondato da affetto e premure, tra il fratello, il cognato, i vecchi amici, Martina che bacchettava tutti perché lo lasciassero riposare. Ora, a un anno dall’incidente, Giuseppe è tornato nella clinica di Montecatone. È ancora un percorso tortuoso. Incontriamo Martina: «È un anno che vedo papà su un letto di ospedale. Il 28 aprile lui non lo considera l’anniversario dello sparo, ma quello dell’inizio del nostro calvario». Da quanto siete tornati a Montecatone?
«Da due mesi. Papà si sforza di fare quello che gli consigliano i medici, ma si stanca subito, dice “basta, sono esausto!”. Pretenderebbe di più dal suo fisico, ma è debilitato e dimagrito. Soffro molto, cos’altro devo affrontare nella vita? Sono tornata nella stessa casa che avevo preso in affitto nel 2013 per stargli vicino e vado avanti. Ma ho tanti timori. E però, nonostante tutto, ogni mattina mi alzo e preparo un sorriso per papà». Che ha subito una nuova tracheotomia, giusto?
«Sì, non respirava bene. È stata una settimana infernale, ha avuto anche un’emorragia a seguito di complicazioni alla vescica. Ha pochi anticorpi e ho paura delle trasfusioni, vorrei evitarle. Ma decidono i medici, mi fido». Ci eravamo sentite quando papà è stato ricoverato d’urgenza all’ospedale di Prato. Polmonite. Ma com’è accaduto?
«Siamo tornati a casa il 18 dicembre, lui era felice. Il 4 gennaio mi sono accorta che non stava be ne. Ho chiamato il medico della Croce Rossa, era diventato cianotico e respirava male. Purtroppo sono esperienze che nella vita ho già fatto con mia mamma, che era malata di cuore. Comunque, il medico ha deciso di portarlo subito in ospedale, sentiva un polmone collassato. Gli hanno diagnosticato un versamento pleurico e gli hanno dato un po’ di ossigeno. Ci siamo rasserenati». Invece?
«Gli è salita una febbre altissima con 60-40 di pressione, l’hanno portato in terapia intensiva. La notte ha avuto una brutta crisi respiratoria e lo hanno messo in coma farmacologico. Respirava solo con il polmone sinistro. Uscito dal coma era stremato. Il primario, dottor Gonzales, ha deciso di praticargli la tracheotomia, che ha migliorato le sue condizioni. Da lì si è pensato al ritorno a Montecatone». Che cosa dicono i medici?
«Cercano di aiutarlo, ma non fanno entrare nessuno nella sua stanza. Papà è molto debole, il rischio è che possa contrarre una nuova infezione. Quando vado da lui devo indossare la mascherina, non posso più sedermi sul suo letto come prima».
Riesce a mangiare?
«Sì, anche se ha il tubo della tracheotomina. Ma non è facile, bisogna stare attenti. Ha passato momenti molto difficili, si era abbattuto, non voleva più combattere. Anche il fratello e il cognato lo hanno spronato a continuare a credere in un miglioramento. Ma se molla lui, io non mollo. Non voglio darla vinta a chi lo ha ridotto così. Mi sembra di vivere in un incubo, vorrei tanto una vita normale».
E tornare a casa...
«Poter dire a mio padre mentre legge il giornale: “Esco, vado a fare la spesa. Cosa vuoi per pranzo?”. E poi riprendere a ridere ascoltando le sue battute e anche le sue raccomandazioni. Come quella maledetta mattina a Roma. L’ho chiamato intorno alle 11 ricordandogli che la sera andavo alla festa della mia amica. E lui: “Torna presto, non farmi stare in pensiero. Mandami un sms, quando sei a casa”. Poco dopo
era in terra, coperto di sangue».
Ma quanto tempo ci vorrà?
«Mi hanno detto di mettermi l’anima in pace, il percorso sarà lungo. Dell’operazione alle braccia per ora non se ne parla, forse l’anno prossimo. Starò ancora mille volte con lui. Lo lascio solo la sera, quando torno a casa. Ho chiesto di mettergli un telefono sul comodino: appena arrivo gli faccio uno squillo , l’infermiere risponde e me lo passa. Non può parlare, sono io che lo faccio. Ma da vicino riesco a capirlo».
Cosa ti ha detto quando gli hai comunicato che avresti fatto l’intervista con noi?
«È stato felice! “Salutali con affetto”, mi ha mormorato, "non voglio passare per maleducato. Ricordagli che sono stato molto male, altrimenti mi sarei fatto sentire io”. È stato anche un modo per ringraziarvi di tutto ciò che avete fatto per noi».
L’Arma dei Carabinieri è sempre presente?
«Sì, non mi abbandonano. Mi ha telefonato il Comandante Generale Leonardo Gallitelli. E mi ha chiesto: “Martina, tutto bene? Va meglio?” Sì, ho risposto. Ma sicuramente lui ne sa più di me».