Oscar Giannino, Il Messaggero 14/4/2014, 14 aprile 2014
LA STRADA DEL MERCATO PER SALVARE ALITALIA
La trattativa tra Alitalia ed Etihad prenderà ancora qualche tempo. Ancora una volta il consiglio d’amministrazione della compagnia è stato rinviato, in attesa della lettera formale e delle condizioni poste dalla compagnia emiratina che fa capo ad Abu Dhabi per assumere fino al 45% di Alitalia, con un apporto di risorse fino a 500 milioni. Ma oramai la lettera d’intenti è in arrivo, dopo una due diligence su conti, debiti e costi di Alitalia che ha convinto James Hogan, il capo di Etihad, a chiedere vincoli ben più gravosi di quanto soci e tifosi di Alitalia si aspettassero. Il governo - Letta prima, Renzi poi, Lupi sempre - si è finalmente molto speso, mentre i soci privati italiani hanno voluto tenere un profilo molto basso, responsabili come sono della cattiva gestione successiva alla privatizzazione del 2008 sebbene non si possa non riconoscere che ci hanno rimesso di tasca propria. Ma ormai è tempo di qualche considerazione di fondo, sulla svolta pressoché definita: quella di un’Alitalia che ammaina ogni velleità di essere vettore mondiale, dopo che per decenni sia lo Stato e per alcuni anni gli attuali soci privati, non sono riusciti a produrre una gestione e un modello di business capace di efficienza e redditività.
Sono almeno tre le considerazioni generali da svolgere mentre si definiranno gli ultimi particolari dell’accordo con Etihad. La prima riguarda il fallimento dei privati italiani, dopo quello dello Stato. La seconda, il prezzo che si paga - e paga l’Italia - al non aver saputo fare il mestiere del trasporto aereo.
La terza, la partita ancora aperta - malamente aperta - tra Malpensa e Linate.
Cominciamo dalla cattiva prova dei «capitani coraggiosi». Ormai, è consegnata alla storia. L’eterogenea compagnia di giro messa in piedi da Intesa Sanpaolo nel 2008 - allora guidata da Corrado Passera - sotto il benevolo occhio di Silvio Berlusconi che proprio sull’italianità della compagnia aveva imbastito un pezzo di campagna elettorale (la trattativa per una unione con Air France si era arenata da mesi a causa dell’intransigenza del sindacato italiano e della violenta impennata del greggio che comprometteva ogni piano di crescita), aveva rilevato un’Alitalia reduce dal disastro pubblico pluridecennale. Ma con un finanziamento statale da 300 milioni, ripulita dai debiti di quasi 4 miliardi (caricati sulla collettività, cioè a noi contribuenti) insieme ai costi indiretti degli ammortizzatori sociali (fino a 8 anni), con una riduzione della forza lavoro di un terzo, fino a un costo complessivo pubblico superiore ai 6 miliardi di euro. La vecchia compagnia non fu fatta fallire, la Corte del Lussemburgo che aveva definito illegale l’ultimo prestito ponte pubblico fu ignorata, le regole della concorrenza furono sospese per tre anni sulla rotta Roma-Milano.
Dopo avere perso 1,2 miliardi di euro nel quinquennio - mangiandosi il patrimonio messo sul tavolo dai privati e producendo debiti per 2,1 miliardi tra esposizioni bancarie (956 milioni), verso i fornitori (605 milioni), debiti finanziari (169 milioni), verso lo Stato cioè tasse (44 milioni) - i «capitani coraggiosi» di Intesa hanno purtroppo fatto rimpiangere persino lo Stato incapace e dissipatore. Il cosiddetto Piano Fenice iniziale, quello annunciato da Corrado Passera con le parole «le partecipazioni statali sono finite per sempre», prevedeva il pareggio al 2010 e un utile operativo di 171 milioni nel 2011. Macché, l’Alitalia di Intesa non è mai stata in utile. Nemmeno con gli aiuti anti-concorrenza. La quota di mercato italiana non è risalita al 56% come promesso. Il primo amministratore delegato, Rocco Sabelli, cui oggi viene imputato l’errore di aver puntato sul corto raggio a scapito del lungo, avrebbe voluto portare entro tre anni l’azienda ad Air France. Ma i soci dissero no. Dopo di lui sono venuti gli errori del successore Andrea Ragnetti: alla fine è toccato pagare pegno a Gabriele Del Torchio. Sicché nell’autunno 2013 i soci privati hanno chiesto soccorso allo Stato che però ha risposto con quel che poteva in quel momento: 75 milioni messi sul piatto dalle Poste per completare un aumento di capitale appena sufficiente a impedire che la compagnia portasse i libri in tribunale.
E come d’incanto sui media tramontata l’arcifamosa bandiera dell’italianità da difendere, la tiritera per cui Berlusconi nel 2008 cambiò idea - all’inizio sosteneva Carlo Toto nel tentativo di rilevare Alitalia, poi si convinse dell’operazione-Fenice. Ecco, il doppio fallimento pubblico e privato in Alitalia ha fatto finalmente capire che nel mercato aereo internazionale credere di giocare in Champions League quando non si è capaci è un’illusione. Almeno questo è un bene.
Veniamo al secondo punto. Subito si comprese che i 75 milioni di Poste sarebbero stati bruciati in poche settimane, e dunque ecco che Etihad diventa il salvatore buono, il cavaliere bianco. Altra illusione. Etihad fa il suo mestiere. Assume quote di «solida» minoranza in compagnie europee come Air Berlin - attenta a non salire oltre il 49% per non perdere il beneficio delle rotte europee mantenuto dai vettori comunitari che partecipa - per orientare però il traffico di compagnie in difficoltà verso l’hub emiratino che è la propria base, da cui porta passeggeri a milioni verso l’Asia, forte com’è di una grande flotta transcontinentale. Hogan l’ha dichiarato più volte che questa è l’intenzione, anche a proposito di Alitalia. Da noi, si fa finta di non sentire. Si racconta che Etihad potenzierà i voli transcontinentali di Alitalia. Certo qualche rotta verso Cina e Usa ritornerà, ma guardate che solo pochi giorni fa Alitalia ha dovuto dismettere l’ordine per 12 Airbus A-350 a lungo raggio. Non ha i soldi. L’amaro boccone da ingoiare oggi sono altri 3mila esuberi indicati da Etihad sugli 11.800 dipendenti di Alitalia, e la richiesta che Unicredit e Intesa consolidino tra 400-500 milioni di debito Alitalia su cui sono esposti. Lupi dice che non è vero. Vedremo, se non è il prezzo da pagare alla fine delle illusioni, pubbliche e private, di chi non ha saputo gestire. Purtroppo, oggi sembra non esserci alternativa.
Terzo punto. È evidente che Etihad vuole potenziare Fiumicino, e questo fa felice Roma e i soci privati di Adr. Ma resta il pasticcio lombardo, tra Linate e Malpensa. Su questo la politica milanese, mentre quella romana ha ammainato le sue velleitarie bandiere, continua a non capire. In 15 anni, malgrado Alitalia il traffico aereo italiano è di molto aumentato (da 53 a 116 milioni di passeggeri) grazie alle low cost che hanno il 49% del mercato, il bilancio sul traffico aeroportuale è stato impietoso. Mentre Fiumicino, tornato a essere l’unico hub di Alitalia, tra 2002 e 2013 ha visto il traffico aumentare del 43%, Malpensa ha perso negli ultimi anni e registra un modestissimo più 3% in 15 anni, Linate più 16%. Orio al Serio di Bergamo, che ha lavorato solo attirando low cost, è cresciuto nel frattempo del 616%, agguantando praticamente Linate come terzo scalo italiano, e Ciampino con lo stesso modello low-cost è cresciuto del 39,5%.
Conclusione ovvia: invece di ostacolare l’intesa ormai obbligata Etihad-Alitalia con pretese di porre vincoli alle rotte Malpensa-Linate per proteggere lo scalo varesino, come questo dipendesse ancora da Alitalia, la politica milanese capisca che è venuto il momento di cambiare musica. Privatizzi Sea che gestisce oggi i due scali, e accetti la concorrenza diretta tra i due aeroporti. Linate torni pure ai 25-30 movimenti aerei l’ora precedenti al limite di 18 assunto per favorire Malpensa, limite che non è servito a nulla; e Malpensa lavori per attirare compagnie e rotte sul mercato delle low cost e delle compagnie concorrenti. Credere ancora che la politica «faccia» il mercato aereo, dopo che sono falliti sia lo Stato sia i privati, è un errore irrimediabile.