Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 13/4/2014, 13 aprile 2014
«IN ITALIA SONO A CASA, HO SOLDI PER TELECOM»
[Intervista a Naguib Sawiris] –
Con Naguib Sawiris (foto) è sempre difficile decidere se incominciare parlando di Italia o di Egitto. Forse è meglio partire dal problema meno grave: signor Sawiris, è ancora determinato a entrare in Telecom Italia? «Sì, lo sono. Io investo con passione, non sono un hedge fund di New York. Mi piace farlo dove mi sento a casa: in Svezia o Danimarca avrei qualche problema, in Italia no: è come essere a casa». Il nome dei due grattacieli in riva al fiume, con grand hotel, shopping mall e quartier generale di Orascom ai piani alti, è Nile Towers. Ma tutti al Cairo le chiamano Sawiris Towers. C’è una grande vetrata nell’ufficio del presidente esecutivo della holding che più di tutte ha portato innovazione in Egitto e che, dopo lo Stato, è il maggior datore di lavoro del Paese: 240mila dipendenti.
Viste da qui, le piramidi di Giza si stagliano oltre la città, il suo caos quotidiano e l’inquinamento. «Le spiego perché sono interessato», dice Sawiris, copto cristiano, 60 anni a giugno, da sempre impegnato nella vita politica e sociale, non solo economica del suo Paese. La polizia sostiene di aver trovato in un covo di terroristi islamici una lista di nemici da eliminare: dopo il generale al Sisi e il ministro degli Interni, il terzo è Naguib Sawiris. «Conosco il panorama italiano», continua. «Vi ho già investito 15 miliardi di euro, la guardia di finanza è già entrata nei miei uffici e ha constatato che l’acquisizione di Wind era trasparente. Tutti i giornali italiani scrissero allora che ero pazzo, che spendevo troppo per un’impresa fallita. La differenza di prezzo fra la mia offerta e quella degli altri era di circa 200 milioni di euro. Alla fine ho avuto ragione io, è stato un buon investimento». Torniamo a Telecom. «Ho esperienza, dunque. Conosco il sistema italiano e lo amo. Riguardo a Telecom, sono interessato perché la compagnia ha bisogno di contante e la partecipazione di Telefonica è conflittuale. Tutto quello che vuole da Telecom Italia è tagliarla in pezzi, vendere la parte brasiliana e tenere una parte dei suoi assets. Tecnicamente è molto stupido. È come comprare un hotel perché vuoi il suo ristorante. Ma se togli il ristorante, l’albergo perde di valore. Una grande azienda come Telecom Italia senza i brasiliani diventa un player locale».
E come pensa di superare l’opposizione di Telefonica? «Un amico francese sostiene che la pazienza non è parte della mia strategia. È vero: se voglio qualcosa, lo voglio adesso. Ma in questo caso no: aspetto perché le banche italiane hanno già detto che intendono uscire entro giugno. E il regolatore brasiliano ha detto agli spagnoli di Telefonica che non possono avere tutto: devono decidere se restare in Telecom Italia o controllare tutte le operazioni mobili di Vivo. Attendo le decisioni di Telefonica. Saprò avere pazienza ancora per qualche mese».
Tutto qui? «No, devo anche capire che il governo italiano voglia un investitore come me. Quello precedente si era già espresso favorevolmente».
Attende dunque il sì di Renzi? «No, aspetto Telefonica. Investo già in Italia: possiedo un portfolio da 6/700 milioni di euro. È il mio maggior investimento all’estero. Gli italiani ormai mi conoscono, non credo dovrebbero esserci problemi».
Se Telefonica esce, quanto è disposto a spendere? «In passato avevo già fatto i miei calcoli e avanzato una mia proposta. Credo che la ribadirei: sarei pronto a investire 1/2 miliardi di dollari».
C’è altro che le piacerebbe fare in Italia? «Settore immobiliare, telefonia, istituzioni finanziarie. Non so se la Banca d’Italia permette la singola proprietà di una banca ma mi piacerebbe possederne una».
Le riforme di Matteo Renzi la convincono? «Continuo ad apprezzare molto Silvio Berlusconi. Ma Renzi sta cambiando le cose. L’ho conosciuto quando era sindaco di Firenze e mi ha fatto molta impressione. È innovativo, ha energia, è aggressivo, è ambizioso. Anche in Egitto la rivoluzione di piazza Tahrir è stata fatta dai giovani. Il suo problema in Italia è la vecchia guardia: non specifico a quale mi riferisco».
Trova qualche similitudine fra Renzi e il generale al Sisi? «No. La testa di un militare è completamente diversa da quella di un politico o di un uomo d’affari. A meno che non voglia dire che entrambi possono essere i salvatori del loro Paese».
E qui veniamo all’Egitto. Lei è stato un grande sostenitore delle manifestazioni di tre anni fa e del cambiamento democratico. Lo spirito di piazza Tahrir esiste ancora? «No. Durante le manifestazioni del gennaio 2011 questo, dove siamo ora, era il back office della rivoluzione. Era sempre pieno di giovani. Già allora dicevo loro: fate un partito, altrimenti l’Egitto cadrà di nuovo nelle mani di un autocrate. Non lo hanno fatto e il Paese ha cambiato l’autocrate Mubarak con un fascista come Mohamed Morsi. Mubarak almeno non voleva cacciare i cristiani copti dall’Egitto. I Fratelli musulmani avevano deciso di eliminarci. Nell’anno in cui hanno governato migliaia di copti sono emigrati all’estero, pensando di non avere più un futuro nel loro Paese».
Lei ora sostiene il generale al Sisi che certamente sarà eletto presidente alla fine di maggio. «Sono con lui al cento per cento. È un uomo molto semplice che però prende decisioni, si è opposto agli Stati Uniti che sostenevano i Fratelli musulmani. Chiunque, qui in Egitto, è convinto che il suo non sia stato un golpe. Gli egiziani non ne potevano più dei Fratelli musulmani».
Lei ha fondato Egiziani Liberi, un partito liberale e pro-business. Al Sisi è un nasseriano. Per definizione i militari egiziani sono per l’economia di Stato. «Non è esattamente così. Tutta la vecchia generazione egiziana – tranne me – dice di essere nasseriana. Ma al Sisi non lo è quando parla di economia. Crede all’impresa privata. E crede che il 30% degli egiziani debbano essere portati fuori dalla loro condizione di povertà. Questa è la sua sfida».
Se fosse il ministro delle Finanze di Abdel Fattah al Sisi, cosa farebbe? «Cancellerei i sussidi dando i soldi direttamente ai più poveri: farei uso della stessa quieta rivoluzione brasiliana della Bolsa Familia di Lula. Abbasserei le tasse alle imprese che reinvestono i loro profitti e assumono. Darei un incentivo a chiunque crei lavoro».
Parla come Renzi. Nessuna ambizione di governo? «Nessuna. Parlo troppo. E voglio continuare ad essere un uomo libero».
Lei cosa intende fare per il nuovo corso al Sisi? Concretamente. «Il giorno dopo la sua elezione investirò un miliardo di dollari nella green economy: ambiente, energia, edilizia, trasporti. Migliaia di posti di lavoro».
E come convincerebbe i riluttanti investitori stranieri a venire o tornare in Egitto? «Agli italiani dico questo: sono pronto a mettere il 90% del capitale di ogni iniziativa, dalla Fiat in giù. Quando vi sentirete rassicurati, vi riconsegnerò il 90% dell’investimento al prezzo di mercato. È quando le cose sono difficili che dovete investire. Quando le cose vanno bene è il momento di disinvestire. Così fanno gli imprenditori».
Ma crede davvero che al Sisi farà andare bene le cose in Egitto? Oltre a lei, i suoi principali sostenitori sono i reduci del regime di Mubarak: gli stessi che lei combatteva tre anni fa con i giovani di piazza Tahrir. «Non tutti gli italiani erano fascisti durante in fascismo. La maggior parte di chi aveva un incarico nel regime di Mubarak cercava di servire il Paese, non lui. La gente ora vuole stabilità, chiede ordine e con la sola democrazia non si mangia».
Dunque per lei al Sisi sarà come De Gaulle: un militare che promuove la democrazia. «È quello che speriamo succeda. Se accadesse il contrario, bisognerà riscrivere la storia dell’Egitto e prima o poi la gente tornerà in piazza Tahrir».
Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 13/4/2014