Fabrizio Gallanti, Il Fatto Quotidiano 14/4/2014, 14 aprile 2014
GRATTACIELI NEL DESERTO PER LA GIOIA DEI SULTANI
Se assumi una posizione politicamente corretta e decidi di non sporcarti le mani, ci sono pochi luoghi dove puoi andare, pochi progetti che puoi realizzare. Non è realistico”. Patrik Schumacher, socio principale di Zaha Hadid Architects, intervistato da Fred Bernstein, Architectural Record, marzo 2014. Il flusso incessante di immagini sulle riviste specializzate d’architettura e su Internet proietta rappresentazioni seducenti di edifici che incarnano un linguaggio innovativo e tecnologicamente avanzato. Talvolta si tratta di simulazioni digitali, estremamente realistiche, talvolta di inquadrature patinate di progetti freschi di inaugurazione.
Grandi cubi bianchi, accatastati uno sull’altro, si stagliano sulla steppa fuori dall’antica capitale del Kazakhstan, Almaty. Ad Astana, la nuova capitale, una piramide in vetro e un cono obliquo rivestito di plastica traslucida sembrano duellare a distanza per convertirsi nelle icone di una città in rapida espansione. A Baku, in Azerbaijan, un edificio maestoso, incrocio tra una scultura sinuosa di Henri Moore e il guscio di un mollusco marino è circondato da palazzoni residenziali in cemento dell’epoca sovietica e da nuovi grattacieli postmoderni . Invece sull’isola di Zira, di fronte alla città, ciclopiche montagne artificiali scintillano sotto il sole del Mar Caspio. A Tbilisi, in Georgia, grandi membrane curvilinee, simili a foglie reclinate di un banano mastodontico, galleggiano al di sopra della grana di costruzioni modeste del centro, mentre a Sarpi, alla frontiera con la Turchia, una torre che sembra la nuvola di un fumetto futurista si affaccia sulla riva del Mar Nero. Alla periferia di Mosca quattro parallelepipedi, ricoperti da una pelle che ricorda i tessuti stampati dell’Africa sub-sahariana sono in bilico su un grande anello trasparente.
CAPITALI DI VETRO E PLASTICA
I cubi bianchi avrebbero ospitato un campus universitario, progettato da Rem Koolhaas / OMA e non realizzato. La piramide di Astana accoglie il Centro per la Pace e Riconciliazione, destinato al dialogo inter-religioso. Il cono, alto 150 metri, contiene il centro di intrattenimento Khan Shatyr: ristoranti, negozi , equipaggiamenti sportivi e un parco al coperto. Entrambi gli edifici sono stati progettati da Foster + Partners.
L’edificio a forma di conchiglia è stato progettato da Zaha Hadid Architects ed è l’Heydar Aliyev Centre, intitolato al padre dell’attuale presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev. All’interno si trovano un auditorium, gallerie e un museo.
Le montagne artificiali di Zira, che riprendono le sette vette più importanti dell’Azerbaijan, sono giganteschi complessi residenziali, che sostengono pannelli fotovoltaici e apparati di riciclaggio di acqua e rifiuti, che farebbero di Zira la prima città a impatto ambientale zero. Il progetto è dello studio Bjarke Ingels / BIG.
I petali sono l’elemento saliente del centro servizi, coprono sette volumi e un’area centrale di uffici pubblici. Il progetto è di Massimiliano Fuksas.
La torre di Sarpi fa parte di una serie di edifici per la dogana della Georgia progettati dall’architetto berlinese Jürgen Mayer H. Mayer.
Il complesso dal sapore africano ospita la scuola di gestione aziendale dell’università Skolkovo, lanciata da Dmitry Medvedev, ex presidente della Russia. Il progetto è del ghanese David Adjaye, promessa dell’architettura contemporanea.
Questi strani oggetti si trovano in luoghi per noi esotici, le nazioni che appartenevano all’Unione Sovietica, che si estendono dai confini dell’Unione Europea sino al Mar della Cina. Tutti, sia quelli costruiti sia quelli rimasti sulla carta, sono stati firmati da architetti internazionali. Nessuno è di un architetto locale.
UN’AREA IN PERENNE AGITAZIONE
Sono trascorsi più di venti anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica; un territorio gigantesco, governato per settanta anni dal partito comunista e congelato dalla burocrazia, è diventato un’area in perenne agitazione. Da uno stato centralizzato, si è passati a quindici nazioni con almeno sei regioni che ambiscono all’indipendenza. Spesso, queste giovani nazioni sono in situazioni economiche fragili, la porzione di popolazione sotto la soglia di povertà è alta: un quadro di ingenti risorse naturali, minerali e idrocarburi, ma di governi autoritari con eredità del comunismo, forme di affiliazione tribale e familistica e corruzione galoppante. Eppure, per molti architetti occidentali offrire i propri servizi al satrapo locale o alla multinazionale torbida non sembra un ostacolo. Considerando che la sopravvivenza di molti studi dipende da nuovi mercati appare quasi scontato che dopo la Cina e le varie monarchie autocratiche del Golfo Persico, l’ex Unione Sovietica sia il nuovo El Dorado. Esistono differenze, e riunire in un cumulo uniforme i progettisti non sarebbe corretto: la Georgia tenta di svilupparsi come una democrazia e architetti come il giapponese Arata Isozaki sono protagonisti di progetti di alto valore culturale e sociale, come i campus di una università internazionale promossa dalla Aga Khan Foundation, con sedi in Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tajikistan.
Ma leggere alcune dichiarazioni recenti su checosa significhi lavorare per un tiranno èraggelante. Si va dal candore quasi infantile con il quale Bjarke Ingels, astro nascente danese, apprezza come i processi decisionali in Kazakhstan siano più spicci rispetto al suo paese natale o al distacco blasé con cui Patrik Schumacher, il socio principale di Zaha Hadid, sfida chi lo critica a non storcere il naso se si vuole costruire. Altri preferiscono glissare e nascondere la propria produzione in paesi di dubbia reputazione, senza che questa appaia sui loro siti Internet o pubblicazioni.
Le trasformazioni stanno avvenendo adesso a un ritmo e un volume senza precedenti (l’Azerbaijan, governato dal 1969 dalla dinastia Alyev, ha investito gli ingenti proventi del petrolio estratto nel Mar Caspio, all’incirca sei miliardi di dollari all’anno, in nuovi progetti, mentre lo stipendio medio mensile è di 590 dollari): bisognerà armarsi di curiosità e viaggiare in quei luoghi per poter elaborare dei giudizi più precisi. Non più ritratti da fotografi compiacenti ma contrapposti a quartieri ancora fatiscenti e infrastrutture dissestate, gli edifici di Zaha Hadid, Norman Foster, o di altri meno conosciuti come Manfredi Nico-letti, non solo appaiono fuori luogo e fuori scala, ma quasi farseschi nella esibizione tronfia di una monumentalità vuota di contenuti.
Fabrizio Gallanti, Il Fatto Quotidiano 14/4/2014