Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 14/4/2014, 14 aprile 2014
“L’ULTIMO BACIO CHE NON CI LASCIA CRESCERE MAI”
Con il dito sul mappamondo e i bilanci obbligati di chi si è messo in movimento fin dal princìpio, Giorgio Pasotti è un quarantenne dall’aspetto diplomatico e dal passaporto logoro. “Sono l’esempio più evidente di come i casi della vita ti portino a percorrere strade inaspettate”. Nell’adolescenza, Pasotti era in Nazionale. Campione di arti marziali, artista del Kobudo e del Wushu, soldato itinerante nelle danze misteriose in cui le cinture diventano via via più scure e i combattimenti, un buco nero da riempire tra una frontiera e l’altra. Da ragazzo, Pasotti avrebbe dovuto curare le ferite: “Volevo diventare un medico sportivo e a un tratto, mi venne in mente che l’unico posto utile a coniugare le mie passioni fosse la Cina”.
Così nonostante lo sgomento dei parenti: “Sono figlio unico, i miei faticarono a capire” l’attore bergamasco che iniziò sulle tracce di Bruce Lee: “Venni scelto per caso da una produttrice che mi vide sul Dojo e mi propose una parte in American Shaolin” ha diviso i decenni tra l’apprendimento delle lingue: “Ne parlo cinque”, il cinema e la filosofia orientale. “Come insegnava Pat Morita in The Karate Kid, nel mio mestiere, non diversamente da quel che accade nello sport, si tratta sempre di dare la cera e toglierla. Ricominciare da zero, non adagiarsi, essere consapevoli che vivere di rendita porta all’estinzione”. Assecondando il precetto, in quasi vent’anni di maschere indossate fluttando sull’onda di un grafico impazzito, Pasotti ha interpretato qualunque ruolo. Conduttore per Mtv, attore di teatro sui testi di Lapage, poliziotto per i distretti televisivi di Renato De Maria, studente che sogna di opporsi al Fascismo ne I piccoli maestri di Luchetti, e poi, in un cambio di divisa senza requie, conducente d’autobus per Ferrario, tenente con l’hobby della fotografia per Monicelli , custode delle bellezze di Roma per l’Oscar onirico di Sorrentino. “Mi considero un falegname. Forse non un talento assoluto, ma uno a cui se dai una superficie da piallare, con impegno e dedizione, è difficile non te la restituisca piana”. A insegnargli a non prendersi troppo sul serio, racconta, fu proprio il maestro che più di tutti rifiutava di considerarsi tale. “Ebbi il privilegio di girare con Monicelli il suo ultimo film e soprattutto di trascorrere al suo fianco un paio di indimenticabili mesi in Tunisia. Sul set de Le rose nel deserto, nonostante la differenza d’età, io e Mario eravamo sempre insieme. Lui era brusco. Secco. Diretto. Senza filtri. Se gli dicevi artista si offendeva: ‘Non vi azzardate, artista è un insulto. Al limite, se proprio lo desiderate, chiamatemi artigiano’. A noi ragazzi raccomandava leggerezza: ‘Essere seriosi fa a cazzotti con il mestiere dell’attore’”. La lezione, giura, gli è servita: “Ho partecipato a tanti progetti. Alcuni sono andati bene, altri male. Alcune scelte si sono rivelate felici e altre sbagliate. Ho messo il mio nome in progetti che a livello commerciale si sono rivelati di flop, ma non mi pento di nulla. E non per presunzione. Non ho mai scelto un film a prescindere e mai, proprio mai, ho deciso di dire sì attratto dalle sirene dei soldi o della fama”. Così, sostiene, ha l’animo sgombro e se gli rimane un cruccio all’orizzonte, per trovarlo, è necessario un salto nel passato prossimo. “Il trionfo di Gabriele Muccino, una persona ambiziosa, intelligente e determinata, ci travolse e collocò me, Favino, Santamaria, Accorsi e tutti gli altri amici coinvolti ne L’Ultimo bacio, in un pregiudizio da cui evadere è stato più complicato del previsto. Insieme a Gabriele, con il quale ho mosso i primi passi nel cinema italiano, siamo stati vittime anche noi, gli attori, gente che aveva solo prestato il volto alle sue storie. Per tutti, a iniziare dalla critica, eravamo identificabili solo in quell’ambito. In quella cosa lì. Sembrava che non potessimo aspirare ad altro. Per fortuna qualcuno si è accorto dell’arbitrio e ci ha dato una seconda occasione”. Ribellandosi al dogma, al nascere e morire con Muccino: “Uno a cui non prendersi sul serio non bastò, lo presero terribilmente sul serio gli altri.
Gli affibbiarono etichette e sociologie d’accatto, lo tormentarono fino a costringerlo ad emigrare solo perché aveva saputo raccontare in modo lieve, onesto e popolare le aspettative di una generazione. Mentre da un lato il suo linguaggio si insinuava tra i motorini parcheggiati fuori dai Licei e nelle fantasie dei quarantenni che sognavano di correre in un parco e incrociare il volto che gli avrebbe stravolto l’esistenza, dall’altro, qualcuno si occupava di demolire la filologia mucciniana con argomenti pretestuosi”. Anni dopo, a conti saldati, Pasotti si è diretto altrove. Un po’ in televisione: “Presto sarò coprotagonista di una storia che racconterà l’amicizia tra Papa Wojtyla e la sua guida spirituale. Abbiamo girato in inglese, il film sarà distribuito in decine di paesi e chissà che finalmente non sia la volta buona per lavorare all’estero. Finora, nonostante la conoscenza della lingua, mi è mancato il tempo”. Un po’ al cinema: “Per il sequel de L’ultimo bacio, Baciami ancora, un secondo tempo della storia originaria che Gabriele voleva fare ad ogni costo, venni investito da rilievi cattivi e spietati. Interpretavo un ragazzo distrutto, segnato anche fisicamente dallo scorrere degli anni e il pubblico rifiutò di ritrovarsi la proiezione brutale del giovane felice di un tempo in un personaggio completamente trasfigurato”. Un po’ dove le sorprese rallegrano: “L’unico che mi fece i complimenti per quel ruolo sofferto fu Sorrentino e se Paolo mi ha scelto per La grande bellezza, significa che erano sinceri”. Un po’ nella terra di mezzo in cui i progetti coraggiosi chiamano al rischio e i budget stringono. “In Nottetempo di Francesco Prisco interpreto un cattivo. Il film è molto interessante, è costato poco più di mezzo milione di euro ed è un tentativo, in un mercato asfittico e prepotentemente indirizzato dalla sola commedia e dalle difficoltà distributive, di proporre linguaggi e temi diversi dai generi dominanti”. Domani, questo bergamasco del ’73, diventerà regista. Il titolo: Io, Arlecchino è un omaggio: “Al più universale e al meno descritto travestimento della commedia dell’arte. Nessuno ha mai pensato a farne un film e dopo aver cambiato idea cinquemila volte, se dio mi perdona, lo farò io. È la storia di un rapporto che si ricuce tra un figlio e un padre, Roberto Herlitzka, sullo sfondo di una compagnia teatrale, un’Armata Brancaleone con la pancia vuota e le tasche piene di sogni. Non danno da mangiare, ma consolano molto. Noi viviamo anche di questo”.
Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 14/4/2014