Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 13/4/2014, 13 aprile 2014
“MINA, GASSMANN E NUREYEV LE MILLE LUCI DELLA RAI”
[Intervista ad Antonello Falqui] –
I coltelli d’avorio sono chiusi nella teca: “Una mania di mio padre che li collezionava” perché le armi sono una tentazione: “Non bisognerebbe mai custodirle in casa” e rimandano sempre un sinistro riflesso: “Il regista Enzo Trapani, un caro amico, teneva in bella vista sulla parete le sue pistole. Un giorno più triste di altri ne prese una e si sparò”. A 88 anni, le memorie di chi inventò i varietà televisivi più moderni del ‘900 italiano sfumano in controluce. Dietro tende, libri e velluti, oltre un portone solido come la stretta di mano che concede indifferente al bastone, Antonello Falqui ha smesso di fare i conti con l’età: “Invecchiare disturba, ma avendo iniziato a riflettere sul senso della fine già un quarto di secolo fa, non mi farò sorprendere. Quando lavoravo non lasciavo molto spazio all’esitazione. Allora ero giovane, deciso e con le idee molto chiare. Oggi molto meno. Non mi ricordo i cognomi, i dubbi sono aumentati e i confini tra il bene e il male restano confusissimi”. Seduto su una poltrona, con le Muratti sul tavolo: “Ne fumo 15 pacchetti alla settimana” e una consapevole, impressionante somiglianza con Aldo Grasso: “Me l’hanno detto, non hanno torto”, Falqui ritrova le costellazioni del suo passato solo a tarda notte. Quando: “La robaccia che propongono in tv evapora” e alle ore più improbabili, nel silenzio, sugli schermi clandestini dei canali tematici passano buchi neri e asteroidi, meteore, stelle e frammenti di Canzonissima, Studio Uno e Milleluci: “Le trasmettono di nascosto, alle 3 di mattina e li capisco. Era un’altra tv. Un’altra civiltà. Un’altra cultura. Non vogliono avere raffronti”. Pausa: “Altrimenti la gente penserebbe ‘ma si sono rincoglioniti?’”. Pianeti lontani, figli di una Rai in cui lavoravano Flaiano e La Capria: “Come i suoi coetanei, Dudù venne via da Napoli perché lì non si può fare niente. La città è magnifica, ma in sincerità, che si combina a Napoli? A sud amano esagerare. Mettono al mondo 10 figli, poi la vettovaglia scarseggia e alla fine si trovano male. La filosofia è generosa, non troppo meditata”. A Roma: “Peggiorata, imbarbarita, ancora bellissima”, in una famiglia “con qualche ristrettezza economica”, da unico erede di sua madre “Alberta, casalinga e di Enrico, critico letterario” Falqui ha sempre abitato. “Se si esclude un lampo milanese all’inizio dei ’50, non l’ho mai lasciata. Con i miei abitavo in Via Giulia, di fronte a Ponte Sisto. All’inizio di quei portici, vivevano Carlo e Mario Verdone, mio insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia. Era un uomo sapiente e buonissimo, promuoveva tutti”.
Promosse anche lei.
Iniziai nel cinema. Aiuto regista di Curzio Malaparte e poi di Anton Giulio Majano nel primo orrendo film da attore di Mastroianni. Marcello era meraviglioso. Simpatico. Nelle pause ci raccontavamo l’infanzia.
Come arrivò in televisione?
Sandro Pugliese, il direttore dei programmi della Rai di allora, era molto amico di mio padre. Si lamentava: “Ho solo verbosa gente di teatro qui. Teorici e parolai. Non c’è nessuno che curi l’immagine”. Non me lo feci ripetere e corsi a Milano per sperimentare. Firmai da regista la prima trasmissione in assoluto della tv di Stato. Si intitolava “Arrivi e partenze”. L’esordio di Bongiorno. Mike intervistava personaggi celebri in partenza.
Era il gennaio del 1954.
Bongiorno nel mestiere era bravo, ma un po’ arido con le donne. Non le trattava bene. Stava con un’attrice, Flora Lillo. Andavamo a sciare al Sestriere. Lui partiva per conto suo e la abbandonava nella baita, tristissima.
Che televisione era quella dell’epoca?
Non volevo alfabetizzare il Paese come il maestro Manzi, ma solo intrattenerlo con grazia ed eleganza. Così provai a trasformare la tv e spostai in quel contenitore il teatro di rivista, già declinante all’inizio degli anni ’50. L’avanspettacolo lo conoscevo bene. Facevo sega a scuola per andare a vedere Rascel al Bernini. Era fantastico. Evadeva dalla classica corrente del comico. Accostava arditamente, osava, rischiava. Poi certo, come tutti i bassi e i brutti, era cattivo.
I bassi e i brutti sono cattivi?
Non è determinismo, è la verità. Prenda Brunetta, non è forse cattivissimo? Rascel, cresciuto nei teatrini felliniani, sui palchi della Barafonda in cui il pubblico era indisciplinato e se non gradiva il numero ti tirava addosso un gatto morto, era proprio perfido. Quando sbagliava, dava la colpa agli altri. Una volta con Garinei e Giovannini dimenticò la parte e invece di scusarsi se la prese con l’uomo che azionava le luci: “O lui o me” gridava.
A lei capitava di litigare?
Raramente. Con Nureyev però, faccia a faccia, venimmo quasi alle mani. Era leggiadro, ma aveva un culo molto grosso e detestava essere ripreso da dietro. Gli spiegai che seguire un ballerino che volteggia senza immortalare le terga era impossibile, ma quando si rivide, perse la testa, si incazzò e gettò un cappuccino caldo sul monitor. I cameraman commentarono ad alta voce: “Anvedi questo”. Poi si avvicinarono truci. Lo volevano ammazzare. Io anche.
Lei aveva fama di decisionista.
Ero duretto, ma sapevo farmi voler bene. Ai miei tempi l’autore non entrava in studio. Che mettesse becco sulla scaletta poi, era impensabile. Mi occupavo di tutto. Scene, costumi, testi. Quando guardo la tv di oggi mi incazzo. Gli autori sono patetici. I registi non sanno neanche da dove si cominci. Fanno solo stacchi, per lo più sbagliati.
Lei con Mina non si sbagliò.
La conobbi per la prima volta nel Musichiere condotto da Riva. Un capitolo era dedicato agli urlatori. Lei e Celentano uscivano dalle ombre di un Juke-Box. Capii che c’era un talento insuperabile, una strada fantastica da percorrere insieme. Nessuno è stato o sarà mai più come lei.
Fu difficile incanalare il lampo?
La rassicuravo. Mina odiava il pubblico e la routine. Quando andava alla Bussola doveva passare attraverso un corridoio. Ai lati, due file gonfie di assalitori che la toccavano e allungavano le mani. In realtà odiava anche Roma. Sosteneva che i romani fossero villani e un po’ aveva anche ragione. I paparazzi prendevano i numeri di targa, ci seguivano, rompevano le palle. All’epoca della nostra storia d’amore ci costrinsero a emigrare.
Mina non amava l’a e re o.
In viaggio eravamo felici. Se ne fregava. Andammo in Jamaica. Da New York a Montego Bay. Poi, sbarcando da un volo minuscolo, atterrammo sulla punta estrema dell’isola. Al Frenchman’s Hotel credevamo di essere soli. Ci fecero firmare il registro degli ospiti. Leggemmo il nome di 10 conoscenti. Eravamo affranti: “Non si può stare in pace neanche qui”.
Ha amato molto in vita sua?
Ero un infedele, un convinto libertino, mia moglie ne ha passate di tutti i colori. Noi libertini ci riconoscevamo alla prima occhiata, eravamo quasi una setta, con i De Sica ci capivamo al volo. Il lavoro non mi aiutava a dimostrarmi retto. Si creavano situazioni imbarazzanti. Ai 2.000 metri del rifugio di Passo Pordoi, in una baita che è la metà della stanza in cui conversiamo adesso, io e Letizia Della Rovere, fedifraghi, pensavamo di essere al riparo. Entrammo e ci sorprese Pino Calvi, il maestro di musica: “Signori qual buon vento vi porta fino a qui?”.
Anche Mina è stata un tuono. Finita la tempesta già non c’era più.
Ritirarsi a 35 anni, sulla soglia della maturità, al comparire della prima ruga per conservarsi bella fino all’ultimo istante, mi è sempre sembrato un peccato di vanità. Lo hanno fatto solo lei e Greta Garbo. Non ci sentiamo da 25 anni, siamo due timidi e forse non sapremmo neanche cosa dirci. Ma è meglio così. È bellissimo proteggere il ricordo delle persone amate. Riscoprirlo immutato. Mai avuto una discussione con lei. Uno screzio. Si fidava. Si faceva servire.
Si favoleggiò sulla sua rivalità con Raffaella Carrà.
Menzogne. Erano amiche. Mina metteva a proprio agio chiunque. La Carrà comunque è la donna più determinata che abbia mai visto. Una combattente mostruosa. In Milleluci, Mina era una diva senza pari, ma Raffaella riusciva ad avere lo stesso gradimento. Provava fino all’alba, era animata dal fuoco sacro. Alla prova dei fatti, non sbagliava una virgola.
Prima di Milleluci, ci fu Studio Uno, eredità di una trasvolata americana.
Mi nutrii del know-how americano, ma loro ricambiarono le attenzioni. Studio Uno era settimanale. A New York erano stupiti. Per fare una cosa del genere impiegavano un anno. Intuii che per creare straniamento bisognava rinunciare alle scenografie, immaginare uno studio vuoto in cui il fondale combaciasse con il movimento, esprimersi in un altro modo disegnando un’oasi di bianco che con gli attori vestiti di nero producesse un contrasto. Mettere luci e microfoni in scena. Con Garinei e Giovannini discutemmo. Venivano dalla rivista, dal Rugantino, da un’accozzaglia di scene, dai colori forti. Si guardavano intorno e non capivano: “Ma è vuoto”.
Fatica e costi esorbitanti?
Balle. Le leggende fanno il loro corso, ma non hanno senso. Allo spettacolo lavoravamo 6 giorni alla settimana. La domenica era libera e le spese erano poco più alte della media. La differenza era nella qualità. Quando Mina canta la sigla della rubrica “È l’uomo per me” sull’aria della sua canzone, tra i pretendenti ci sono Mastroianni, Cervi e Gassman. Una cosa seria.
Con Gassman eravate in buoni rapporti?
Dopo Randone, era il più grande attore italiano di sempre. Aveva avuto 5 mogli, denaro, plauso critico e successo, ma era afflitto da preoccupazioni minime: “Non sono più come una volta, sto perdendo la memoria e decade anche il fisico”. La chiamava depressione, ma io non riuscivo a spiegarmela con razionalità. Una sera per convincerlo che si trattava di sciocchezze tenemmo aperto un ristorante fino alle 5: “Tutti possono essere depressi tranne te” arringavo. “Sei alto, bello, intelligente. Andiamo, Vittorio mio, tu dalla vita hai ricevuto tutti i doni”.
Le molte mogli erano anche il sintomo di un’inquietudine profonda?
Vittorio, almeno in parte, somigliava a Bruno Cortona, il suo personaggio del Sorpasso. Era duro e istintivo, ma buono. Mai come Chiari. Un pezzo di pane morto senza una lira perché i soldi preferiva darli agli altri. Non aveva alcun senso del denaro, Walter. Era un prìncipe. Una persona che sapeva conquistare Ava Gardner e rialzarsi dopo una caduta. Quando venne coinvolto in un’infondata storia di cocaina con Lelio Luttazzi, ne uscì benissimo. A Lelio, per dire, quella vicenda rovinò completamente l’esistenza. Non lo aiutò nessuno. Una vergogna.
Censure dell’età democristiana?
Neanche mezza. Ettore Bernabei, il più grande dirigente della tv pubblica di sempre, probabilmente l’unico, era un vero signore. Parco, sobrio, discreto. Mai una parola su calze a rete, gemelle Kessler, ospiti o sketch. E sì che Bernabei era un democristiano sfegatato.
Lei lavorò anche per Filiberto Guala, amministratore delegato della Rai del ‘54. L’uomo che si presentò con un limpido piano: “Chi sono io? Un moderno crociato chiamato a lottare per il sepolcro della pubblica coscienza e venuto a cacciare pederasti e comunisti”.
Uno che a differenza di Bernabei mi i rompeva i coglioni su tutto. Dal Can-can alle luci peccaminose. Si è fatto frate, si immagini la testa che doveva avere. Mi divertivo con altre persone. Con Marchesi, Villaggio, Dino Risi e Fellini, giocavamo sempre al varietà della vita. Ce la godevamo. Quando veniva a trovarmi Federico erano subito mangiate surreali. Lui era sublime. Bugiardo come la peste. Glielo dice anche la Magnani in Roma: “A Federì, va a dormì”. Lui le chiede se può farle una domanda e lei rapida: “No, nun me fido”.
Fellini era amico di Andreotti. Lei si è mai interessato di politica?
Molto più oggi di ieri. Sono sempre stato socialista, mai votato Pci. Renzi mi sembra volenteroso, ma non so se potrà mantenere quel che ha promesso. Ha molti ostacoli. Grillo era meglio come attore. La politica della distruzione non mi affascina. Lei scrive per il Fatto?
Sì.
Per caso è comunista? Glielo chiedo per curiosità. Il mio rinnovato interesse per la politica prende il via dagli anni ’90, dall’avvento di Berlusconi. Il suo arrivo ha radicalizzato i piani. In politica e in tv. Quarant’anni fa, la tv viaggiava in prima classe . Ora è diventata triviale. Berlusconi, con quella Mediaset lì, ha involgarito tutto.
L’ha mai conosciuto?
Per portarmi a Milano mi tenne a colloquio per 3 giorni in un palazzo a due passi dalla Rai. Entravo di nascosto e lo trovavo, preparatissimo, dall’altra parte del tavolo. Aveva studiato programmi, testi e persino inquadrature. Voleva gli spiegassi la tv.
Che impressione le fece?
Era un fenomeno nell’eloquio e aveva certamente un estro non comune. A parlare non lo fregava nessuno e d’altronde, se non avesse avuto talento non sarebbe mai arrivato a fare le puttanate che ha fatto. Detto questo, non avevo nessuna voglia di finire sotto padroncino perché la Rai ha molti difetti, ma almeno il padroncino non ce l’ha. Ha i Cda emanati dalla politica che sono un male, ma un male minore. Così rifiutai un miliardo di lire all’anno per tre stagioni. Era l’83. Berlusconi, incredulo, mi invitò a riflettere: “Porti l’assegno in bianco in Rai e veda cosa le dicono”.
Lei lo portò?
Sissignore. Andai da Emanuele Milano, il direttore di Rai1 e lui sbiancò. Si mise le mani nei capelli. Balbettò: “No, aspetta, ora vediamo, adesso risolviamo, ti prometto che cambiamo il contratto”. In effetti lo migliorarono, senza però sfiorare neanche lontanamente le cifre di Berlusconi. Nella sua tv c’è un paradosso. Nasce a Milano, nella culla della moda, ed è provinciale. Nel ’60 in tv andava Gazzelloni. Oggi vanno le Veline.
Guardi che Antonio Ricci si arrabbia.
Mi dispiace, ma la sua tv è dozzinale e volgare. Non mi piace. Come, esclusa forse Non è la Rai, che almeno aveva l’idea delle ragazzine, non mi piace neanche la tv di Boncompagni. Non si può elevare il nulla a massimo sistema. Il nulla è solo il nulla. È vuoto.
Potrebbero ribattere che la sua è una visione filtrata dagli anni. Una visione che confligge con gli ascolti.
E io risponderei che non c’è prova che alla gente piaccia veramente quella robaccia come giurano i santoni di una certa dialettica molto in voga. Dicono: “Il pubblico vuole questo”, ma è una bugia. Solo un espediente per scusarsi e giustificarsi. Il pubblico vuole altro. Basta darglielo. Ma il pubblico va anche allevato, quasi educato. Se gli dai l’immondizia si avvilisce. Si abbrutisce.
Perché ha smesso di lavorare per la tv relativamente presto?
Non c’erano più i miei dirigenti e non c’era più la mia Rai. Quella in cui per varcare il profilo del Cavallo si veniva sottoposti a un esame difficilissimo ed era richiesto il sapere. Oggi dominano incompetenza, cooptazioni politiche e raccomandati. Purtroppo si vede. Ed è un peccato. Sa cosa è stata la tv per gli italiani?
Cosa è stata?
Una manna. Un aiuto dal cielo. Li ha resi svelti, gli ha insegnato a leggere e a scrivere, gli ha aperto le teste. Ora gliele sta richiudendo.
Se le chiedessero aiuto per una nuova tv?
Li lascerei nel loro brodo. Non esistono più le categorie, è saltato tutto e io non sono un presenzialista come Freccero. Metto l’idea per farmela massacrare? No, l’idea non la metto. Lei mi chiede come si può pensare a una nuova forma televisiva, ma forse dovrebbe chiedersi prima con quali figure potrebbe nascere. Rifare la tv di ieri nel 2014 sarebbe impossibile. L’unico con cui, se gravemente minacciato, potrei pensare di collaborare è Fiorello.
Lo apprezza?
È il solo che si avvicini al nostro modello. A Walter Chiari. In più sa anche cantare. Purtroppo gli dipingono attorno durate eccessive. Il varietà dovrebbe durare un’ora, al massimo 75 minuti. Oltre si sbrodola. Si annoia e ci si annoia. In un’ora ci sono 40 idee. Ma in due ore e mezza, può star tranquillo, non ce ne saranno mai cento.
E di Fabio Fazio? Per qualcuno è il nuovo Baudo. Lei all’esame bocciò il presentatore.
Fazio non mi dispiace, quel che fa lo fa discretamente. Baudo racconta sempre l’episodio della sua bocciatura con la pretesa di ironizzare. Dice: “La lungimiranza di Falqui, figuratevi, mi respinse”. Rivendico la scelta. Lo bocciai perché non bisogna pensare al Baudo di oggi. Parlava siciliano stretto, era cafone e volgare, nulla a che vedere con quello di oggi.
I rapporti tra voi?
Con Baudo non ho mai lavorato. Lui non si capacitava: “Hai lavorato con tutti e non con me” e io, calmissimo, senza emozione: “Perché io e te non abbiamo nulla da dirci”.
Se pensa a domani?
Ci penso con la serenità di chi ha condotto un’esistenza felice. Cammino poco e presto compirò 90 anni. Ma ho fatto il lavoro che sognavo e ho tenuto più di 20 milioni di italiani di fronte a una tv che mi permette di guardarmi ancora in faccia. Poi vado ancora al cinema. Ho visto il film di Sorrentino. Bellissime immagini per carità, ma non le è sembrato un po’ astruso?
Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 13/4/2014