Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 13/4/2014, 13 aprile 2014
UN COMUNISTA AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO
[Intervista a Gian Maria Volontè] –
Come comincia la sua storia? Quella del signor Volontè e l’altra, la vicenda dell’interprete?
Direi quasi contemporaneamente. Ho debuttato molto presto, diciotto anni, prima la provincia, poi l’Accademia, le Stabili, le compagnie di giro, la tv, il cinema, tutto procede di pari passo: lavoro e invecchio. Mio padre si occupava di una piccola-media industria, madre casalinga, famiglia lombarda, nato a Milano in via Solferino, la strada del Corriere della Sera. Le prime recite le ho fatte con un complesso viaggiante, I carri di Tespi, due figli d’arte; lui, il capocomico, era napoletano. Facevamo il repertorio ottocentesco, io mi accontentavo, facevo un po’ di tutto dal suggeritore al trovarobe, dal segretario al protagonista. Era un teatro che veniva montato nelle piazze. Ci arrangiavamo. Dipendeva dalle “piazze”: a volte c’era da mangiare per tutti, a volte no, quando andava bene ci fermavamo anche un mese, altrimenti il giorno dopo si partiva per un’altra città.
Che cosa le piace, e che cosa la disturba, nel suo mestiere?
Stabilire un nuovo rapporto col regista, discutere insieme, costruire d’accordo. Questo va bene. Ma siamo in tremila, e solo dieci entrano nel giro clamoroso degli eroi del rotocalco, o delle vittime del pettegolezzo. Del resto, le nostre quotazioni sono regolate dal mercato: domanda, offerta.
Lei è considerato uno dei migliori attori italiani, un film con lei protagonista, “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, è stato premiato con l’Oscar: come sceglie una sceneggiatura?
Fare l’attore per me è stata una scelta esistenziale, ho fatto molti sacrifici. Quando facevo l’Accademia ho dormito anche dentro le macchine che trovavo aperte. Un film lo interpreto se porta contenuto se racconta dei meccanismi della società, sento la necessità di raccontare agli altri un po’ di verità.
Perché è comunista? Un incontro, delle letture, un’ingiustizia subita? La scoperta di certi autori come Brecht, il tentativo di fare del teatro off, fuori dalle consuetudini: ricorda l’episodio, il falso scandalo de “Il Vicario”? No, lo racconti.
Era il 1965, con la regia di Carlo Cecchi mettemmo in scena il testo di Rolf Hochhuth che denunciava i rapporti tra la Chiesa e i nazisti e le responsabilità del Papa Pio XII verso l’Olocausto, accusato di essere stato passivo nei confronti dello sterminio. Dopo la prima sera intervenne la polizia che impedì le altre rappresentazioni con la scusa che il teatro non aveva il certificato di agibilità. Poi, non ho preso in considerazione certe proposte, anche allettanti; le commedie all’italiana, per intenderci; non me ne importa niente. Abbiamo fatto invece documentari sulle fabbriche occupale, e a Reggio Calabria abbiamo girato delle interviste strepitose. Dico: bisogna cercare spazi democratici più autentici. Dico: bisogna fare film di contenuto. Dico: bisogna battersi per le strutture.
Non le pare che alcune forme di protesta, come quella di scrivere con lo spray frasi rivoluzionarie sulle automobili dei piccoli borghesi che vanno a far compere, per Natale, alla Rinascente, siano per lo meno un po’ buffe, o un po’ ingenue?
Mi sembra di sì. Infatti, io non ho mai spruzzato niente. C’è stata tutta una campagna perché, in quel momento, con altri colleghi facevamo il teatro di strada. Suscitavamo interesse e persecuzioni.
Che cosa cercavate? Dove volevate arrivare?
Miravamo al decentramento culturale.
Spieghiamoci, proviamo.
A Roma rifiutavamo il teatro chiuso, arroccato in centro, venticinquemila spettatori all’anno, su tre milioni di abitanti, troppo pochi. Il teatro era elitario.
In effetti erano pochini. E che testi destinavate ai marciapiedi?
Scene legate alle esigenze delle masse. Che so: la questione della casa, gli inconvenienti del traffico. E alla fine della rappresentazione, assemblee e dibattito. Ci hanno attaccati, la polizia ha effettuato dei fermi e degli arresti, e qualcuno ha tentato di farci passare per un gruppo di irresponsabili.
Tra le persone che ha conosciuto chi è rimasto nella memoria?
Sono parecchie; tanti compagni, tanta gente , io ho un rapporto reale con la sezione del partito, col quartiere.
Chi ammira di più? Tra i contemporanei, nel passato?
Bertolt Brecht, Antonio Gramsci e Giuseppe Di Vittorio, questi sono i miei riferimenti.
Dei giudizi negativi, ce n’è qualcuno che l’ha colpito?
No. La critica non offende. Mi fa riflettere e basta. Ma è la volgarità di un certo tipo di stampa che ferisce, quella, ad esempio, che lancia il mito del Volontè finto proletario, ma autentico avaro, che va al mercato per risparmiare. Ecco: è questo genere di ciarpame che non digerisco.
E delle definizioni? Tutte giuste? È un arrabbiato? A me non pare. La trovo anzi disteso, riflessivo.
Non urlo, sicuro. Ma certe analisi portano a inevitabili conclusioni, ci spingono ad una scelta: può darsi che, assistendo ad alcuni falli che si ripetono ogni giorno, uno si sdegni pure e reagisca.
Ho letto una sua lettera a un ministro, nella quale risponde anche all’accusa di guadagnare troppo, centocinquanta milioni, se non sbaglio, per scrittura. È una contestazione che le fanno spesso: la imbarazza?
No, perché ignoro a chi dovrei lasciare i soldi. Non lo so. Al produttore, al distributore? Perché dovrei rifiutarli? Perché uno è legato all’idea socialista dovrebbe forse, mi dica, regalare i quattrini ai capitalisti?
Le dico: no. Ha simpatia per gli extraparlamentari? Che so: gli anarchici, Lotta Continua, il Movimento studentesco?
A me specialmente quelli di Lotta Continua, sembrano dei monaci, non so di chi, di quale Ordine, forse di Andreotti. Il Movimento studentesco ha esercitato una grossa funzione di rottura, ha posto dei problemi. Gli anarchici sono simpatici oggettivamente. Quando mi documentavo per il film Sacco e Vanzetti, venivano fuori episodi curiosi: sono quelli che hanno gettato meno bombe di tutti e che hanno pagato il prezzo più alto.
Se dovesse cambiare, quale professione l’attrae?
Biagi, la sua: quella del giornalista.
Ha una spiccata vocazione per gli esercizi complicati, perché?
Mi piace conoscere, e far conoscere.
Come si prepara ad affrontare, che so, il ruolo di Enrico Mattei o di Lucky Luciano?
Raccolgo tutto il materiale possibile, leggo tutto quello che trovo, poi colloco la figura nel suo momento storico. Qualcosa di simile, insomma, a un’inchiesta giornalistica, all’indagine del cronista.
I registi dicono che lei è un attore che si presenta sul set sempre preparato, con il copione in testa. Ha un metodo?
Non credo sia un metodo, faccio una cosa molto semplice: scrivo a mano su di un quaderno le battute più volte. Questo mi serve per impararle, poi le ripeto a memoria come si faceva a scuola con le poesie.
Ha qualche hobby? Come impiega gli assegni che riceve?
Amo molto il mare, la natura. Del denaro ne faccio quello che voglio.
Chi sono i privilegiati? Gli alti burocrati, gli industriali, i divi? Lei come si considera?
Uno che ha la possibilità di scegliere, di esprimersi, questo è già un vantaggio. Sì, io sono un favorito.
C’è qualche gesto che l’ha commosso?
Sì, quelli delle grandi folle popolari.
Scendiamo al dettaglio.
I metalmeccanici quando sono andati a sostenere la piattaforma sindacale per il Mezzogiorno.
Francamente, non è da tutti. Che cosa sogna per sua figlia?
Un mondo in cui non debba mai indossare nessuna divisa.
D’accordo. Se un giorno avesse il potere, che cosa farebbe?
Non lo so; l’irrigazione della piana delle Puglie.
Qual è l’aspetto più umiliante per chi lavora?
Avere un padrone. Dicevano in Francia, nel 1968: “Il padrone ce l’hanno i cani”.
Signor Volonté, se dovesse raccontarsi, dire chi è, come si comporterebbe?
Un attore: questa è la mia parte. E nonostante tutto, mi creda, sono anche ottimista.
Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 13/4/2014