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 2014  aprile 12 Sabato calendario

“MAI INSEGUITO IL SUCCESSO IN FONDO SONO UN INGEGNERE”

[Intervista a Elio] –

La tivù non è solo ascolti. Deve anche essere altro: diffusione, cultura, sperimentazione. Ancor più in Rai. Ecco perché, dal mio punto di vista, Il Musichione è stato un successo”. Così parlò Elio. RaiDue, seconda serata al giovedì: notoriamente non una fascia fortunata. L’ultima puntata ha riportato gli Area in tivù dopo trent’anni, “e se non tornavano da così tanto qualche problema in Italia ci deve essere”. Si è visto anche Filippo Graziani: “L’ho ascoltato a Sanremo. Era palesemente uno dei più bravi, ma non se l’è filato quasi nessuno. Così lo abbiamo chiamato. Siamo tornati a fare jam session in tivù. Impegno e incoscienza: le nostre cifre”.
E gli ascolti?
Posso dirlo? Dello share non me ne frega un cazzo. Ringraziamo la Rai, ci ha dato non carta bianca ma bianchissima: infatti il programma era un caos. Ridaranno le cinque puntate in replica a orari più umani, magari andrà meglio. E comunque basta con il mito degli ascolti.
Però sono decisivi.
Conta solo il risultato, come nel calcio. Uno dei tanti danni del berlusconismo: o vinci o non sei nessuno. Nella musica questo atteggiamento ha portato a un abbassamento spaventoso del gusto. Bisogna operare per un lento e costante processo di innalzamento del livello. Non è facile: per chi mangia da sempre hamburger, un cibo di pregio può risultare indigesto.
X Factor è un hamburger. O no?
Chiaramente non è un prodotto rivoluzionario, anche se a Sky è migliorato. Lo volevo fare un solo anno, sono rimasto quattro. E non lo farò mai più: mai più. Sono contro la filosofia dei talent, ma se non li avessi frequentati non sarei diventato un volto noto e non mi sarei potuto permettere Il Musichione. Che ha confermato tutti i paradossi dell’Auditel.
Tipo?
In una puntata abbiamo messo due stuntman che si scazzottavano, esortandoli a esagerare per fare ascolti. Una provocazione , ma poi quel momento è stato davvero il picco di share.
“La televisione ha la forza del leone e ti addormenta come un coglione”. Era Jannacci.
Nel 1999 simuliamo a Mediaset una contestazione di spettatori delusi dalla nostra “commercializzazione”. Io reagisco male, quasi picchiandoli, e la conduttrice Tamara Donà ferma tutto. Una cosa studiata nei dettagli, ma su Youtube credono ancora che lo scazzo fosse vero. Volevo proprio questo: dimostrare che la tivù ha un potere spaventoso.
I finti contestavano, dicevano che giocavate agli alternativi, ma poi andavate in giro con le Mercedes. Oggi fate pubblicità e talent.
Ci sarà sempre qualcuno che ci riterrà venduti. Sono quelli che ripetono “eravate meglio prima”. Pazienza. A un certo punto devi fare una scelta: sto fuori dal sistema, faccio il puro e non incido, oppure ci entro dentro, sfrutto la mia fama e provo a cambiarlo?
Il suo primo concerto è del 1980.
Con due amici che non sono più nella band. A Milano, per un Festival Caf del Centro Anni Fascisti. Tutto bello, solo che non c’era pubblico. Giusto qualche pensionata ai lati del giardino. Avevo 19 anni e un repertorio assurdo. Più o meno come adesso.
Negli anni Ottanta i vostri concerti circolavano come bootleg attraverso audiocassette di culto. Quand’è che avete raggiunto il successo?
Forse non lo abbiamo mai raggiunto e non mi pongo il problema. Se fossimo diventati famosi di colpo, ci saremmo dati a droghe e psicofarmaci. Molto semplicemente, e procedendo per gradi, a un certo punto l’hobby è diventato lavoro. E adesso siamo meno precari di altri.
Prima di fare il musicista che lavoro faceva?
Ne ho fatti tanti. Sono stato quattro anni alla SIA, la Società Interbancaria per l’Automazione. Doveva servirmi come apprendistato per la laurea in Ingegneria, in realtà durante quel contratto ho inciso due dischi e in Ingegneria mi sono laureato dopo.
Altri lavori?
Montavo i proiettori Sony e lavoravo in una sala corse. Prendevo le scommesse di gente che non lavorava mai e spesso era pure criminale. Dovevi stare attento a non pronunciare i nomi dei cavalli o si incazzavano, perché erano scaramantici. Tornavi a caso intriso di fumo da fare schifo.
Avete vinto molti premi.
Mi interessano poco. Il mio obiettivo è sempre stato non avere successo, ma fare cose strane e farle bene. Scoprire fino a dove avrei saputo spingermi e trasmettere qualcosa. I premi saranno belli da guardare quando sarò vecchio, ora me ne frego. So che quando dici queste cose passi per stronzo, ma è così.
Siete riusciti a “trasmettere qualcosa”?
Bah. Tutti ci dicono “bravi bravi”, ma non trovo un ventenne o trentenne che sappia farmi sobbalzare dalla sedia per quanto è bravo. Vuol dire che abbiamo fallito nella semina e che il berlusconismo ha desertificato quasi tutto. La musica è ormai un sottofondo da supermarket, mentre per me è arte. E la politica deve avere un “sogno”, mentre è quasi solo Bar Sport.
Le vostre parodie hanno fatto arrabbiare molti colleghi.
Mietta è stata la più autoironica. In una canzone la tratteggiammo come lesbica; all’inizio ci rimase giustamente male, poi è diventata un’amica. Nel ’90 facevamo le parodie del Festival di Sanremo in semi-contemporanea, in un teatro ad Arma di Taggia. Una delle più note era “Verso l’ignoto” cantata da Gianni e Marcella Bella. Autore Mogol.
Che non gradì. Trasformammo quel testo nel percorso di uno stronzo vero, che cade nel water e comincia un suo lungo viaggio, appunto verso l’ignoto. Un brano per me geniale, ma Mogol non apprezzò e negò l’autorizzazione per incidere la canzone.
Avete collaborato con Bertoli, Finardi, Dalla, Bisio, Fogli, Abatantuono.
Tutti molto gentili. Quello che ricordo con più affetto è Enrico Ruggeri: fu il primo che cercai ed ero emozionatissimo. Anche per le nostre sigle di Mai dire gol c’erano calciatori e allenatori che si mettevano in gioco. L’autoironia è la qualità più importante nella vita.
Nei concerti dite ancora che Pippo Baudo vi tolse la vittoria del Festival.
Un gioco con fondo di verità. Era il ’96, arrivammo secondi con La terra dei cachi dietro Ron e Tosca. Ci furono indagini, mi interrogarono. Un carabiniere mi rivelò che, dai dati in loro possesso, risultava che fossimo stati noi i veri vincitori. Anni dopo ho incontrato Giorgia: anche a lei avevano detto che, dai dati in loro possesso, era stata lei la vera vincitrice. Boh.
Una delle figure mitiche dei vostri concerti è l’architetto Mangoni.
Il mio idolo fin dalle scuole, lo tengo d’occhio da sempre. Il più grande esecutore che conosca: gli dici una cosa e la fa. Ai miei occhi è già nell’olimpo degli dèi.
Nel 1998, a 36 anni, muore Feiez. Stava suonando Rockin’ in Rhythm di Duke Ellington.
Sapeva fare qualsiasi cosa: tecnico del suono, fonico, sassofonista, chitarrista, cantante. Un vero one man band. Con lui ho perso un fratello. Ricordo il giornalista che mi chiedeva di commentare la notizia fuori dall’obitorio. Feiez se n’era appena andato. Sono un non violento, ma è stata l’unica volta che ho pensato di picchiare qualcuno.

Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano 12/4/2014