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 2014  aprile 13 Domenica calendario

I PUGNI NERI DEL RIBELLE


Fu un gancio mancino, poi un diretto con il destro. Lo uccise così, dopo essersi lasciato torturare. Fu a Kinshasa per volontà del dittatore che doveva rinfrescare la sua immagine. Intorno c’era il mondo intero, Muhammad Ali nato Cassius Marcellus Clay Junior combatteva per un popolo infinito, quello dei neri. Era il ruolo che aveva scelto per se stesso. Poteva pescare un’altra carta anche dal mazzo disperato dei pugni, sapeva parlare, era un pugile diverso perché aggiungeva grazia a quella brutalità senza contegno, che non può contenersi. «Una farfalla che punge come un’ape», dissero, ma il gesto e la danza di Ali non volevano metafore o allegorie o similitudini. Per purezza e novità, semmai era il pugile e la sua azione che si elevavano a termine di paragone. Scelse quel posto nell’universo a fianco dei sottomessi il giorno che lo zio Sam lo chiamò in Vietnam. Si era già convertito all’Islam, la diserzione era un reato che lo costrinse alla libertà su cauzione e il governo lo affrontò con spirito patriottardo: «Ali, sai dov’è il Vietnam». «Sì», rispose, «lo so: è in televisione», dove ogni giorno passavano le immagini delle magnifiche sorti e progressive. Aggiunse: «Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro».
A Kinshasa the rumble in the jungle (la rissa nella giungla) cominciò che era ancora buio: l’incontro del 30 ottobre del 1974 fu programmato alle cinque del mattino per essere apparecchiato all’ora di cena in America. Ali non danzò ma il tempo non aveva ancora corrotto la sua classe, e il serbatoio dell’orgoglio era pieno, come sempre. Arrivò in Africa anche la fanfara e fu un concerto immenso: James Brown, BB King, Bill Withers, Celia Cruz e dal continente furono convocati Manou Dibango e Miriam Makeba; Prima dell’incontro si cantò e si ballò e si pregò come in un rito antico di annunciazione. Quel popolo gli disse: «Ali, bomayé»: uccidilo. Fu il coro che preparò la sfida, fu il terribile auspicio che soffiò sul ring per otto riprese, fu l’urlo che tacque solo quando partì il gancio doppiato dal diretto. Anche l’altro era nero, anche l’altro è un pezzo di storia del pugilato, la migliore, la più autentica: George Foreman. Cadde a terra, non morì (anzi, avrebbe tirato e preso cazzotti per altri 20 anni) ma le parole che fecero la storia di quell’alba a Kinshasa furono estreme, sublimi. L’incontro ebbe una preparazione atletica e verbale lunga tre mesi. Quando Foreman sbarcò all’aeroporto, i congolesi si aspettavano di veder scendere un bianco: Ali stava costruendo il suo capolavoro, era riuscito ad imporsi come l’uomo di un Continente. Era Ali contro Foreman, era anche l’Africa contro il resto del mondo. Foreman sottovalutò questo teatro, contando su un colore medesimo della pelle. Passeggiò per Kinshasa con un pastore tedesco al guinzaglio, nessuno lo avvertì che quello era il cane che faceva la guardia ai militari belgi quando piegavano i congolesi alla più sanguinaria colonizzazione.
L’organizzatore di quell’incontro fu Don King, il manager dai capelli dritti, un po’ parodia del genere, con le dita farcite di anelli e la bocca spalancata in sorrisi maleducati e che poi avremmo visto a fianco di Tyson, in un duetto che sembrava emerso dall’inferno. King offrì a Foreman 5 milioni di dollari: era il pugile più forte, giovane, alto, mobile, potente, spiccio. Aveva appena sbriciolato Norton e Frazier, a loro volta carnefici di Muhammad Ali. Questa breve serie d’incontri, che si sarebbe dilatata in eccezionali repliche dopo Kinshasa, chiariva quali fossero i pronostici, tutti per Foreman. Gli stessi 5 milioni di dollari convinsero Ali. Ma nessuno aveva 10 milioni di dollari da dare a due pugili, anche nell’epoca d’oro di questo sport. Quei soldi li aveva Mobutu Sese Seko, il dittatore dello Zaire, ex Congo belga (e adesso di nuovo Repubblica democratica del Congo). È morto nel 1997 e da allora si è potuta leggere la verità: nei 32 anni di regno si è preoccupato di accantonare qualche risparmio, grossomodo 10 miliardi di dollari, e non esiste concorrente nella storia che abbia distratto più soldi dallo Stato per uso strettamente privato. Fece la sua parte nella cacciata dei coloni belgi ma si rivelò subito per quello che era, un despota senza scrupoli. Fece arrestare il maggior rivoluzionario socialista dell’Africa, il primo ministro Patrice Lumumba e si narra che gli mangiò il cuore, dopo la violenta uccisione. Assunse il potere dopo aver deposto il presidente Joseph Kasa-Vubu nel novembre 1965.
Dunque aveva i soldi e aveva il movente: l’occasione di ammantare di leggenda la sua dittatura. E così si andò a combattere in riva al fiume Congo, il mitico fiume che risale le tenebre nel libro di Konrad. Si doveva fare il 25 settembre del 1974, poi Foreman si ferì in allenamento e tutto slittò di un mese abbondante. King e Mobutu avevano anche pensato al concerto, una kermesse di due giorni in stile Woodstock, ingaggiando le maggiori star della musica nera, e queste sono date che non si possono ricontrattare: si fece lo stesso, però mancavano gli spettatori stranieri, che avrebbero dovuto testimoniare l’evento e che avrebbero fatto numero, potendosi permettere il costo del biglietto. L’organizzatore dai capelli ritti suggerì di aprire i cancelli: il concerto sarebbe stato gratis. E fu enorme per partecipazione e per eco. Intanto, Ali meditava la sua tattica.
La boxe è uno sport muto ma attorno ad Ali c’è sempre stato molto chiasso. La sua biografia ha innalzato il pugilato dove mai era stato ma ne ha anche affrettato il declino, per non esserne più all’altezza. Fu un’epoca irripetibile e fu marchiata da questa sua idea che, oltre al grande sportivo, potesse esistere al contempo un grande uomo. Non sempre condivisibile, ma coerente fino all’autolesionismo, coraggioso e pienamente inserito nel suo presente, contaminando e rischiando una vita semplice con le complicazioni della politica, vista a modo suo, come se fosse sul ring. Presentarsi agli africani come il liberatore fu in fondo un merito acquisito a sue spese. Appena conquistata la corona mondiale contro Liston, scelse la via più tortuosa, rifiutando tutto: il nome, il cognome, la patria. Cassius Clay divenne Muhammad Ali il giorno in cui un cameriere si rifiutò di soddisfare le sue richieste di cliente, «perché i bianchi non possono servire i negri». Quel giorno affogò la medaglia d’oro di Roma in un fiume, non era più americano (almeno, non solo). Il tempo di atterrare con una carezza Liston nella rivincita, e arriva la chiamata alle armi, e la conseguente diserzione. Perde la licenza per combattere e si guadagna cinque anni di condanna, ma evita il carcere pagando una sostanziosa cauzione. Quel rifiuto di andare a sparare a un popolo del terzo mondo fu speso bene, a Kinshasa.
Quando Ali torna a combattere; arrivano vittorie facili e sconfitte dolorose. In giro c’è gente che picchia sodo, che molla jab di piombo e sputa sangue, senza indietreggiare di un centimetro. Uno di questi è Joe Frazier, un colosso di 110 kg, per 1 metro e 85. Trecento milioni di persone guardano in tv il suo match contro Ali: Frazier si ruppe il polso destro e gli ruppe la mascella, come poi fece anche Ken Norton; Erano uomini a perdere, pestati fino alla morte, incubata con decenni di anticipo. Smokin’Joe (così il manager Yank Durham chiamava Frazier, «vai là fuori e fai uscire fumo da quei guanti») era un poveraccio, ultimo di 12 figli, ladro di macchine a tredici anni, aiuto macellaio nell’adolescenza a Filadelfia, dove si allenava menando i buoi appesi al gancio (e Stallone-Rocky si nutrirà dell’idea, nel suo film). Le due rivincite contro Ali lo consumarono, a Manila nel 1975 furono 15 round leggendari, entrambi sfiniti, Smokin’Joe praticamente accecato, il suo angolo che getta la spugna a tre minuti dalla fine. L’allenatore con dolcezza gli disse: «Siediti, Joe, è finita. Nessuno si dimenticherà mai quello che hai fatto oggi». Ali vince ma nella notte piscia sangue e l’indomani non riesce a mangiare per il dolore alle mascelle.
Foreman aveva battuto Frazier con meno dispendio, ma ricordò per sempre il primo pugno dell’altro: «Mi ha mancato, ma mi sono spaventato così tanto che per reazione l’ho colpito sei volte». Siamo sempre lì: il 30 ottobre 1974 Foreman è un pugile più pronto. Ma Ali è un uomo più forte. Rifiutò il suo destino di perdente rompicoglioni. Provocò con il suo frasario spocchioso, promise un ospedale moderno ai congolesi (e Foreman gli rispose: «Ci finirai tu»). Si allenò con uno sparring dal cazzotto pesante, alla Foreman: Larry Holmes (che lo avrebbe umiliato qualche anno dopo).
Aveva pianificato la sua strategia. La videro tutti, con sgomento crescente. Cominciò aggredendo Foreman, per un minuto, poi si mise alle corde, i pugni per riparare il capo, i fianchi offerti al martirio. Seconda ripresa: Foreman abusa di un avversario che un tempo danzava, e adesso aspettava apparentemente inerme il suo destino. Terza ripresa, quarta ripresa, quinta ripresa: va ko, non può resistere. E invece incassa. E sussurra alla furia nemica: «Tutto qui, George?». Sesta ripresa: altri cazzotti, ovunque, la testa ciondola. «Mi deludi, George, mi avevano detto che picchiavi forte...». Settima ripresa, Foreman è un toro spossato dalla sua furia, «Allora, George, ti rendi conto che non mi stai facendo niente?». L’ottavo round è una foto tragica e bellissima.