Buno Gravagnuolo, l’Unità 14/4/2014, 14 aprile 2014
ATTENTATO A GENTILE: TRAPPOLA PE RTOGLIATTI
DAVVERO L’ATTENTATO A GENTILE, MAESTRO DELL’ATTUALISMO CHE ADERÌ ALLA RSI, RESTA UN MISTERO? Davvero non sono chiari moventi e mandanti dell’attentato dopo 60 anni? E davvero il Pci non ne fu protagonista e ideatore, nella Firenze occupata dai tedeschi? Proprio nell’anniversario di un’esecuzione che fa ancora discutere esce il libro ricco e suggestivo di uno psicologo, Luciano Mecacci. Che con metodo indiziario ricompone e scompone i tasselli del caso. Non senza suggerire una tesi: furono i servizi segreti britannici, con la complicità di un nugolo di intellettuali (Manlio Rossi, Berenson Markevitch, Bilenchi e molti altri) a volere la morte del filosofo. Favorendo l’azione del Gap guidato da Bruno Fanciullacci, che per mano di Giuseppe Martini freddò il filosofo quella mattina del 15 aprile 1944 a Villa Montalto in via del Salviatino.
Il libro, si intitola La ghirlanda fiorentina (Adelphi, pp. 528, euro 28). E ghirlanda fiorentina è nome in codice: l’agenda usata da John Purves, «italianista» e storico della filosofia a Edimburgo, arruolato nell’esercito segreto di Churchill, per i suoi rapporti ante-guerra con gli intellettuali fiorentini. Tra gli indizi della pista britannica, Mecacci tira in ballo Radio Cora, emittente del Partito d’Azione e canale di collegamento con l’VIII armata britannica. Un «giro» da cui proveniva anche un misterioso esponente del P.d.’Az., accompagnato in anticipo sul luogo dell’attentato dall’ex partigiano azionista Bindo Fiorentini. E tra le prove-indizio ci sono anche le parole di Gentile stesso prima dell’8 settembre a Mario Manlio Rossi, storico della filosofia: «Ho completato la mia opera, i suoi amici possono uccidermi se vogliono». Dunque intellettuali, azionisti, criptocomunisti, o in bilico tra le ideologie nella fase di trapasso (Garin, Ragghianti, Bianchi Bandinelli, Calogero). Tutti vicini al filosofo. Ai quali egli confida i suoi presentimenti, e da alcuni dei quali è scongiurato di non aderire alla Rsi, per la tragedia che poteva derivarne. Come nel caso di Cesare Luporini, lettore di italiano alla Normale e poi filosofo dell’italo-marxismo. Come rivelò a Luciano Canfora in una trasmissione radiofonica del 1985, «c’erano cose che ancora non si potevano dire» su quella esecuzione. Concetto ribadito a chi scrive nel marzo del 1993, alla vigilia della sua morte. Con in più l’aggiunta – nel corso di una intervista per l’Unità – di un ricordo preciso: «Lo supplicai in autunno di non andare a Salò ma lui disse domani vado da Mussolini e mi lasciò nell’angoscia..».
Era turbato e reticente Luporini. E le stesse cose tornano nel libro di Mecacci, con la «frase-replica» di Gentile al filosofo Carlini nel 1944, riferita da Luporini: «Ci siamo tutti immersi (in questa tragedia) fino alla fronte...». Gentile immaginava, paventava, e molti della sua cerchia presentivano, o sapevano. Del resto la scelta di presiedere l’Accademia d’Italia della Rsi – anche per salvare il figlio Federico prigioniero in Germania – aveva generato odio. La Banda Carità infieriva, cinque giovani renitenti erano stati fucilati prima di quel 15 aprile, mentre Gentile pur da moderato, condannava «traditori e sobillaltori», e inneggiava a Hitler «condottiero della Grande Germania». Ma qual era la posizione del filosofo? Coerente, dopo le esitazioni successive al 25 luglio. Aveva protetto intellettuali ebrei come Kristeller, dissentendo (solo) in privato dalle leggi razziali. Protetto antifascisti e «corporativisti impazienti» alla sua corte – chierici comunisti e azionisti – in un famoso discorso «dissenziente» dal regime in Campidoglio nel giugno 1943. Perciò da lealista nazionale e fascista, osteggiava il fascismo più feroce, e sperava in una pacificazione che consentisse alla Rsi di ottenere una tregua o un armistizio: che salvasse Mussolini e ciò che restava dell’Italia. Eccola quindi la tesi di Mecacci, che riprende argomenti già lanciati da Luciano Canfora nel 1985 nel suo La sentenza: erano i britannici che bersagliavano per radio Gentile, a osteggiare il suo moderatismo. E a volerlo eliminare, per arrivare a una resa del fascismo senza condizioni. Tesi suggerita anche dal figlio Benedetto Gentile: una moderazione che dava fastidio, a tutti. Inglesi, partigiani e fascisti duri.
A questo punto andrebbe però ricordato che la pacificazione di Gentile non aveva nessuna chance in quel 1944 (al più Gentile poteva chiedere al Duce di fare pressioni sui tedeschi, dopo l’uccisione del suo segretario). E poi – fuor dal reticolo degli indizi ragionati da Mecacci – restano alcuni fatti certi. L’attentato fu compiuto da gappisti comunisti, e condannato dagli azionisti. Fu accompagnato da una rivendicazione, consistente in un discorso anti-Gentile di Concetto Marchesi da Padova, poi chiosato (solo) nell’edizione fiorentina della Nostra Lotta da una postilla apocrifa di Girolamo Li Causi. Quel periodico voluto da Eugenio Curiel era controllato a Milano da Longo, Secchia e Li Causi. Ed ebbe un ruolo chiave. Così come lo ebbe Teresa Mattei, partigiana e inventrice della mimosa 1’8 Marzo, futura moglie di Bruno Sanguineti, figlio del patron dell’Arrigoni, uomo dai collegamenti decisivi nell’Italia occupata tra Pci centrale e periferico. Fu la Mattei a indicare agli uomini del commando la figura di Gentile, che come rivelò essa stessa al Corsera il 6 agosto 2004, doveva morire per vendicare suo fratello: il chimico accademico Gianfranco Mattei morto per le torture a Via Tasso. Il tutto disse la Mattei, fu voluto da Sanguineti (ma sparò Giuseppe Martini). In collegamento con Milano, riteniamo. Né c’è motivo di dubitarne, poiché a distanza di anni non si vede perché mai la Mattei, uscita dal Pci e legata alla sua storia, dovesse attribuirsi a vuoto un gesto così grave e controverso. Non valgono alcune sfasature del resoconto rilevate da Mecacci che concede del resto l’attenuante della memoria incerta alla donna scomparsa nel 2013. La versione tiene. Ed è confortata da considerazioni più generali. E cioè: il tipo di rivendicazione, con postilla apocrifa apposta al discorso di Marchesi solo nell’edizione fiorentina del giornale.
La copertura goffa e propagandistica data ex post da Togliatti dell’attentato. Fatta di insulti («bestione, corruttore») e motivata dall’ansia di chiudere qualcosa di imbarazzante: di cui non si sarebbe parlato più troppo. Né agli esecutori – Martini e Fanciullacci – venne mai reso «onore». Infine c’è la contraddizione palese, tra la «pacificazione antifascista» voluta da Togliatti con la svolta di Salerno, e l’attentato contro una figura come Gentile, dioscuro dell’idealismo italiano con quel Croce che avrebbe governato con Togliatti (e che a Croce non lesinò critiche per la sua convivenza col regime). Morale, l’attentato fu voluto dal Pci interno: fiorentino e «milanese». Senza consultare Togliatti che a quel tempo era in viaggio da Mosca per annunciare la bomba della svolta di Salerno. Svolta osteggiata dal settembre 1943 – quando Togliatti la lanciò da Radio Milano Libera – da un ampio fronte: dagli azionisti, a Longo, Amendola, Secchia, Scoccimarro. Uccidere Gentile fu un segnale preciso a Togliatti: questa è anche una resa dei conti civile e ogni pacificazione, come quella con Badoglio, il Re e Croce, ha un limite. Togliatti prese nota e finse di adeguarsi. Ma andò per la sua strada di unità nazionale e democratica. Per fortuna.