Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 13 Domenica calendario

QUEL CORTOCIRCUITO TRA ETICA E DIRITTI

La situazione che si è creata al Pertini di Roma sembra un «esperimento mentale» del tipo molto frequentato dai filosofi contemporanei. Se non fosse che vi sono coinvolte persone umane, con autentici problemi e autentiche ansie, si potrebbe dire che è un caso paradossalmente «fortunato».
Quello che è successo può aprire uno sguardo rinnovato sulla questione dell’inizio della vita. Se non altro, ci obbliga a ripensare, forse per una volta al di là di assurdi e dannosi giochi politici, il problema dell’aborto, e più in generale il problema della maternità.
Una donna che desidera un figlio suo, e riesce ad averlo con la fecondazione assistita, si trova incinta di due gemelli, dopo qualche tempo l’analisi del Dna rivela che non sono suoi né di suo marito. Come potremmo descrivere la sua situazione? Giuridicamente, non credo che ci siano molti problemi: esiste un danno, subito dai genitori biologicamente mancati, e i responsabili dovranno renderne conto; d’altra parte la donna può abortire, la legge lo consente (a quanto sembra la gravidanza è ancora nei termini previsti). Eticamente la situazione è più complessa.
Un aspetto disorientante è che in condizioni normali, chi abortisce interviene su se stessa e su un proprio figlio, in questo caso invece si tratterebbe di prendere una decisione che riguarda due figli altrui, e che peraltro sono stati in tutta probabilità chiamati in causa dal desiderio di altri genitori. La scelta è difficile, ed è anche complicata dal fatto che comunque la madre-non-madre e il padre-non-padre avevano cercato e voluto questa gravidanza. Già, si direbbe: però volevano un figlio «loro», e non «altrui». Ma che cosa significa davvero la proprietà di un figlio?
Qui ci spostiamo su un piano ontologico, che cioè riguarda il particolare modo d’essere di un individuo che contiene in sé un altro individuo. Uno dei punti più tipicamente in discussione in bioetica è se l’analisi del problema dell’aborto debba basarsi sulla natura del feto, sul cosiddetto «statuto ontologico dell’embrione», oppure soltanto sui diritti in conflitto (il diritto della madre di scegliere il proprio destino, e il diritto dell’embrione di vivere). La prima posizione è poco frequentata dalla bioetica «laica» (la cosiddetta embryontology è rimasta un ambito di ricerca raramente applicato in bioetica). Ma in nessun caso ci si è preoccupati di riflettere a fondo sul fatto che la stessa condizione di una donna che ospita un figlio (suo o altrui) è una seria minaccia al principio di identità.
Il fatto è che la produzione di un figlio umano è in definitiva uno «stato d’eccezione», e come tale dovrebbe essere trattato. Questo era ciò che sosteneva Kant, il quale riteneva che le donne incinte o che hanno appena partorito non dovrebbero essere soggette alle leggi della convivenza civile, appartenendo di fatto allo stato di natura. Kant era insolitamente estremista, a questo riguardo. Ma se valutiamo il problema nei termini della situazione di un individuo che ne contiene un altro (in questo caso altri due), ci accorgiamo anzitutto che l’aborto non è in nulla paragonabile a un assassinio, precisamente perché l’essere due di una unità umana è qualcosa di nuovo e di diverso, con sue leggi ontologiche proprie.
Ciò non vuol dire che in simili condizioni non esistano obblighi e norme. Vuol dire piuttosto che l’aborto più che a «un assassinio» (come alcuni sventatamente vorrebbero) è paragonabile a un’automutilazione: una donna si priva di una parte di sé, e una parte che è anche una condizione di vita, e come tale di felicità o infelicità. È semplicemente giusto lasciarle questa libertà, ed è ignobile sfruttare politicamente il suo dolore.
Ci si chiede allora che cosa accada a una madre e a un padre che devono rinunciare a un figlio non loro, e che è stato concepito e accolto nel quadro di un effettivo desiderio di maternità e paternità. Al dolore derivante dal privarsi di una parte di sé si aggiunge la preoccupazione di dover decidere per qualcun altro, per altre relazioni, per altri destini. Ma c’è una speranza. L’analisi del Dna delle quattro coppie potrebbe favorire una soluzione brillante: che ciascuno porti a termine la propria gravidanza, e infine ci si scambino i figli, appena nati, e se mai si mantenga in vita a lungo questa strana e grande famiglia allargata.