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 2014  aprile 13 Domenica calendario

GIORGIO GASLINI – “HO SCOPERTO IL PARADISO DEL JAZZ NELL’AFRICA DA SALOTTO DI MIO PADRE”



QUANDO finiamo la nostra conversazione nel bar Cucchi non distante dal suo studio milanese, dove tutto è cominciato, davanti a un paio di panini e una spremuta d’arancia, il nostro musico illustra il “teorema Gaslini”: la fortuna non è inversamente proporzionale alla sfiga (Lapalisse ringrazierebbe); la fortuna è direttamente proporzionale alla determinazione. Se vuoi avere successo devi pedalare, anche sull’acqua, dice ironico il Gaslini mentre si tocca la cravatta Hermès. Noto i gemelli ai polsini. Vistosi senza essere un pugno nell’occhio: sembrano due piccole noci multicolori. Un misto di corallo, giada e oro. Dice il Gaslini: «Acquistati all’aeroporto di Bangkok e messi in suo onore». Penso che scherzi. Non scherza. Penso che se non avesse fatto il musicista - ed è davvero un grande - sarebbe stato un mago della televendita. «Ci vuole determinazione», ripete. Elenca: «Quattromila concerti, 80 paesi, tremila dischi. È la mia vita in numeri!». A 84 anni Gaslini è tra le più sorprendenti scatole dei ricordi che abbia aperto.

È un dono la memoria?
«Nel mio mestiere è importante. Ma non fondamentale. Tra i miei amici Luciano Berio aveva scarsa memoria. Non ricordava neppure le partiture scritte il giorno prima. Claudio Abbado invece aveva una capacità mnemonica pazzesca».

E la sua?
«La mia è di elefante. Certe volte penso sia più un peso che un sollievo. Certe volte mi dico: se passo il tempo a ricordare cosa mi resta del futuro?».

Cosa immagina che resti?
«Incorporare il proprio passato nella memoria è un’arte difficile. Quando diventa nostalgia, solo allora il futuro muore».

C’è un ricordo al quale non rinuncerebbe?
«Beh, sono tanti. Il più sgargiante: io bambino in casa, tra gli oggetti africani che mio padre collezionava».

E cosa ha di speciale?
«Quel mondo esotico e strano, capii in seguito, fu alla base della mia formazione».

Suo padre cosa faceva?
«Era un militare. Andò in Africa alla fine degli anni Dieci. E ne subì il fascino. Divenne addetto culturale in Eritrea. Per passione mise insieme un archivio di diecimila foto. Si improvvisò etnografo, scrisse libri. L’amore che non riuscì a condividere con mia madre lo ebbe per quel continente. L’Africa fu la sua puttana. Riempì la casa milanese di strumenti musicali strani, di statuette, di tessuti dai colori bellissimi, di scudi e lance di guerrieri».

E quello divenne il suo mondo?
«Furono i miei sogni di bambino. Immaginavo mio padre - che con mio fratello vedevamo pochissimo - come l’ideatore di un mondo favoloso».

E sua madre?
«Si erano separati. Questione dolorosa. Il tribunale ci affidò a lui. Nei momenti di sconforto ho chiesto aiuto alla musica».

Come è nato il rapporto con la musica?
«C’era un pianoforte verticale in casa. A sei anni mi venne il desiderio di studiarlo. È una cosa seria? Chiese mio padre. E il giorno dopo si presentò con un’insegnante».

Da che cosa nasceva quel desiderio?
«Toccando i tasti, la prima volta, sentii una vibrazione fortissima e, poco dopo, pensai che quello strumento mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Ciò che scopriamo del mondo è quello che abbiamo già dentro».

E cosa si porta dentro?
«Una forte volontà, una grande fantasia e una piccola verità».

Una piccola verità?
«Trasforma, se puoi, la confusione in un lieve paradiso di suoni».

E lei scoprì il paradiso con il jazz?
«Fu la mia rivelazione. Influì quell’Africa da «salotto« che mio padre aveva arredato. Poi, un giorno, comprai per caso un disco di Earl Hines, che era stato pianista di Armstrong. Già suonavo e ascoltandolo scoprii che il suo stile mi corrispondeva».

Cos’era quello stile?
«Lo chiamarono il trumpet style, Hines lo aveva mutuato dalla tromba di Armstrong. Rimasi impressionato, in Italia non si suonava niente del genere».

Dove viveva?
«A Milano. Suonavo con alcune orchestre e nei locali. Si era sparsa la voce che fossi bravo. E la cosa arrivò all’orecchio di Achille Scotti, un pianista cieco, ma strepitoso, che teneva tutti i sabati un concerto alla radio. Aveva rotto con il suo partner e ne cercava uno nuovo. Feci un’audizione. Alla quinta nota mi disse ok, il posto è tuo. Per un anno lavorai alla grande. Guadagnavo bene, cominciavo ad essere famoso nell’ambiente. La guerra era alle spalle e il paese aveva un gran voglia di ricominciare a vivere. Ma sentivo in me crescere l’insoddisfazione».

Perché?
«Non mi bastava quello che avevo. Il jazz era una bellissima esperienza. Al tempo stesso avvertivo il bisogno di qualcos’altro. E lo capii il giorno in cui mi arrivò una partitura di Stan Kenton. Semplicemente rivoluzionaria: staccava le sezioni come fossero in stereofonia. Venni a sapere che aveva preso lezione da Edgard Varèse, che da Parigi era emigrato negli Stati Uniti».

Cosa le suggerì quella circostanza?
«Mi fece capire che una risposta al mio malessere potevo cercarla nello studio. Interruppi i rapporti professionali. Mi dimenticai delle band, piantai tutto e mi iscrissi al conservatorio. Avevo vent’anni. Mi inserirono al quinto anno. Mi diplomai nel 1949. Tra i maestri ho avuto Antonino Votto, che fu braccio destro di Toscanini, Carlo Maria Giulini. Per due anni ho seguito le lezioni di armonia e contrappunto di Giulio Cesare Paribeni. Il mio compagno di studi era Claudio Abbado».

Che allievo era Abbado?
«Bravissimo. All’inizio sembrava che volesse dedicarsi al concertismo pianistico, poi virò decisamente sulla direzione d’orchestra. Claudio veniva qualche volta a casa mia e credo che il suo primo interesse per il jazz lo ebbe grazie a me. Gli facevo ascoltare i miei vecchi amori e un giorno gli diedi un disco di Friedrich Gulda dicendogli: ecco un esempio di come la musica classica si sposa con il jazz. Dopo il diploma so che si perfezionò al piano proprio con Gulda».

C’era anche Berio?
«Con Luciano ci diplomammo lo stesso giorno. Il suo saggio mi sbalordì. Era un talento della composizione. Ma non credo che la sua direzione fosse all’altezza del suo genio compositivo. La sua fortuna la creò negli Stati Uniti».

Perché lì?
«Fu Cathy Berberian il tramite. All’inizio, anche lei allieva al Conservatorio Verdi, cercava un pianista e Luciano si offrì. Poi si innamorarono e si misero insieme. Si sposarono. E si trasferirono in America. L’enorme talento vocale di Cathy fu una delle molle che consentì a Luciano di sviluppare la sua musica, che tra l’altro si avvalse del sostegno non indifferente di Luigi Dallapiccola».

Come erano quei personaggi che lei ha conosciuto da giovani?
«Caratterialmente differenti. Abbado era molto discreto. Berio impetuoso. Perfino prepotente. Piuttosto avaro, forse memore di un’infanzia poco agiata. Divenni molto amico di Niccolò Castiglioni. Era l’opposto di Berio. Invaso da una timidezza che una polio, contratta da piccolo, aveva trasformato in solitudine. Fu un uomo coltissimo e pieno di gusto. E solo oggi si scopre il talento della sua scrittura compositiva».

E lei in quel bel gruppo che ruolo si ritagliò?
«Possedevo una cosa che gli altri non avevano: l’improvvisazione. Non mi ero dimenticato del jazz, volevo arricchirlo con l’esperienza che stavo facendo nella musica contemporanea».

Che poi era la musica dodecafonica.
«Sì, ma senza farne un feticcio. Molti miei compagni di corso, negli anni Cinquanta, andarono a Darmstadt, per proseguire la loro preparazione. Improvvisamente tutto si radicalizzò».

Darmstadt era una cittadina tedesca dove dalla fine della guerra iniziarono i corsi estivi di musica contemporanea.
«Nacque lì la “nuova musica”, e il nume tutelare di quella svolta fu Webern. C’erano le più grandi promesse della musica d’Avanguardia: Stockhausen, Boulez, Berio, Maderna. Quest’ultimo, tra gli italiani, fu il più grande».

E Luigi Nono?
«Ovviamente c’era anche lui. Oggi è un classico del Novecento che sublimò l’impegno politico e civile dentro forme nuove della sua ricerca musicale».

Quando dice “impegno” intende ideologia?
«La musica di Nono è stata di un rigore assoluto. Ma il fatto che egli la destinasse alla classe operaia, come a volte mi è sembrato di capire, dimostra che in quegli anni l’ideologia era più importante o altrettanto importante della creazione artistica. Ma lei se li immagina gli operai della Mirafiori davanti a un concerto di musica elettronica? ».

Perché non seguì i suoi compagni a Darmstadt?
«Perché nonostante tutto nella mia vita c’era ancora il jazz. La mia musica non vive di pregiudizi. È colta senza essere astrusa. Scrivo per chi ascolta, non per dieci addetti ai lavori. La musica nasce come un’arte coinvolgente e il jazz trasmetteva tutto questo. Ricordo la volta in cui Duke Ellington suonò con la sua orchestra al Lirico di Milano. Alla fine del concerto Herbert von Karajan bussò al camerino di Duke. Era l’omaggio non solo a una personalità immensa ma anche al mondo del jazz».

Però non ha disdegnato la cosiddetta “musica totale”.
«Non era in contraddizione. Nel 1957, suggestionato dalle lezioni di Enzo Paci sulla fenomenologia, scrissi: Tempo e relazione. Misi a frutto le mie competenze nel contemporaneo».

In che modo aveva conosciuto Paci?
«Insegnava all’università di Milano, era un grande studioso di Husserl. A quel tempo avevo letto alcuni testi del filosofo tedesco senza capirci un accidente. E fu così che frequentai il corso di Paci. Mi si dischiuse un mondo. E quel disco è stata la mia fortuna».

Perché?
«La vita a volte è curiosa. Lavoravo alla casa discografica “La Voce del Padrone”, un giorno venne Nicola Arigliano nella mia stanza: ti presento un grande attore, disse. E fece entrare Marcello Mastroianni. Bellissimo. Timido. Perfino impacciato. Conversammo e alla fine gli regalai il disco che era appena uscito e che era sul mio tavolo. Lui ringraziò. Io avvertii: guardi è musica d’avanguardia. E lui con un sorriso: siamo stati tutti avanguardisti».

Poi che accadde?
«Qualche tempo dopo ricevetti una telefonata da Michelangelo Antonioni. Stavagirando La nottee cercava qualcuno che gli scrivesse la musica. Marcello gli aveva passato il mio disco. Gli era piaciuto. Mi convocò per le nove di sera. Direttamente sul set. All’aperto. Voleva che con il mio quartetto suonassi nel giardino. Mi disse semplicemente: lei deve farmi un pezzo così. Così come? Gli chiesi. Così, e se ne andò. Marcello insieme a Monica Vitti e a Jean Moreau, ridevano. Hai capito? Lo devi fare così».

E lo fece così come?
«Come mi poteva venire seguendo l’estro dell’improvvisazione. Non sapevo che quel film sarebbe stato un capolavoro e che la mia musica avrebbe vinto il Nastro d’Argento».

Le si aprì anche una carriera di compositore per il cinema.
«Ho composto musiche per 42 film».

Anche quella celebre per Profondo rosso di Dario Argento.
«Fu un’impresa lavorare con Dario Argento. Anche se prima di Profondo rosso avevo fatto con lui quattro telefilm e Le cinque giornate».

Perché fu un’impresa lavorare con lui?
«Perché era indiscutibilmente bravo, ma anche nevrotico».

Con Antonioni non ha più lavorato?
«No. Era un uomo misterioso. Remoto. Non si congratulò neppure per il mio Nastro d’Argento. Lo rincontrai vent’anni dopo in un aeroporto. Vidi un signore alto ed elegante spingere un carrello. Maestro! Esclamai. Lui si voltò. Ah è lei Gaslini. Mi afferrò un braccio e disse: che bella musica ha scritto per La notte. E se ne andò».

Lo ha più rivisto?
«Fui invitato per la festa dei suoi novant’anni. C’era tanta gente. Era venuto perfino Rostropovich. Antonioni era su una sedia a rotelle. Senza più la parola. Mi avvicinai. Nella confusione generale sembrava una statua. Gli dissi qualche parola affettuosa. Sfiorandogli le mani. Mi rispose, o così a me sembrò, con il semplice movimento delle palpebre».

Non sembra facile alla commozione. Ma avverto un’incrinatura nella voce.
«È stato un grande artista. E la vita ha voluto che lo incontrassi. Probabilmente senza di lui non avrei mai intrapreso la parte di carriera che ha riguardato il cinema».

Chi è Gaslini oggi?
«Un signore anziano. Pienamente autonomo. Che dipinge e compone. Viaggio molto meno. Sono fiero di quello che ho realizzato. Orgoglioso di aver fatto inserire una cattedra di jazz nei maggiori conservatori italiani. E soprattutto di aver tolto al jazz quella patina di maledettismo che l’ha spesso ricoperto. Dimenticando che i suoni vengono prima delle persone».