Lorenza Pignatti, la Repubblica 12/4/2014, 12 aprile 2014
LORENZA PIGNATTI
TOKYO
L’APPUNTAMENTOè al 21_21 Design Sight, lo spazio espositivo che ha fondato nel cuore di Tokyo Midtown. Non ama le interviste e da buon giapponese si tiene alla larga da qualunque domanda possa apparirgli troppo diretta o, figuriamoci, personale. Eppure Issey Miyake non lesina sorrisi quando ci viene incontro indossando con eleganza e amabilità i suoi settantasei anni. Il Timelo ha inserito nell’elenco degli “asiatici più influenti del Ventesimo secolo” insieme a Gandhi, a Mao, al Dalai Lama e all’imperatore Hirohito, e nel campo della moda ha vinto quasi tutto quello che c’era da vincere. E però se ci sono due etichette che a questo instancabile e visionario sperimentatore vanno strette sono proprio l’Oriente e la moda: «Le mie esperienze all’estero mi hanno suggerito la creazione di cose che trascendono le differenze tra una parte o l’altra del pianeta». Quanto al suo lavoro non sièmaidefinitoun fashion designer, hasempreaffermatodiessere«piùsemplicementeundesigner ». E non lo dice per snobismo, ma perché alle parole devono sempre corrispondere i fatti. E i fatti dicono che nel corso della sua lunga carriera Miyake non ha disegnato solo vestiti (o magliette: per esempio quelle nere indossate dal suo amico Steve Jobs), ma anche valigie, biciclette, lampade, spazi espositivi (per esempio quello in cui ci troviamo). E dunque non è soltantoun fashion
designer. Semplice.
La passione per il design lo assale durante l’adolescenza, a Hiroshima, la città in cui è nato, la città della bomba. Quando viene sganciata, 6 agosto 1945, lui ha sette anni. Sua madre ne morirà tre anni dopo e come lei altri suoi famigliari. L’unica volta in cui Miyake ha riaperto pubblicamente quellaferitaèstatanel2009,inunaletteraalpresidenteObamapubblicatadal New York Ti-mes: “...Ero un bambino. Ancora oggi quando chiudo gli occhi vedo cose che a nessuno dovrebbe essere consentito di vedere. Ricordo tutto. Anche per questo nella mia vita ho preferito occuparmi di cose che potessero essere create, e non distrutte, e che potessero portare gioia, e bellezza...”. Il Miyake adolescente cominciò a individuarle ogni mattina mentre andava a scuola e attraversava il “Ponte per la pace” progettato dal nippo-americano Isamu Noguchi. Dopo essersi laureato in graphic design alla Tama University di Tokyo, nel 1964 si trasferisce a Parigi per studiare Fashion Design presso la Chambre Syndicale de la Haute Couture. Nella capitale della moda lavora per Guy Laroche e Hubert de Givenchy, poi arriva il ‘68 e tutto cambia. Compresa la sua idea su cosa volesse dire fare il designer. Miyake non vuole più progettare abiti solo per l’élite. Lascia Parigi, breve parentesi a New York, quindi di nuovo Tokyo dove, è il 1970, fonda il suo Studio di Design. «Vole-
vo creare oggetti basati su un’idea universale e che però allo stesso tempo fossero assolutamente originali. Il Giappone era il luogo giusto, perché è un Paese in grado di unire tradizione e nuove tecnologie e che in quel momento storico non vedeva l’ora di fare qualcosa di nuovo e di eccitante».
Universalità e originalità. Miyake è stato il primo stilista a cui la prestigiosa rivista d’arte americana Artforumha dedicato una copertina. Era il 1982, e il suo abito dalle forme fantascientifiche era stato realizzato in rattan e bamboo con una originalissima tecnica artigianale tipica dell’isola di Sado, nel Mar del Giappone. Anche il progetto A-Poc (APiece Of Cloth, anno 2001), realizzato con Dai Fujiwara, è esemplare per l’uso delle tecniche rivoluzionarie: da un singolo filo, in un susseguirsi continuo, viene creato un tessuto che ha le sembianze di un tubo al cui interno è suggerita la forma di una maglia, di una gonna o di un accessorio: chi compra il tubo di tessuto ha la possibilità di tagliarlo (seguendo le cuciture) e modificarlo a suo piacimento per personalizzarlo. Non a caso, dal2006, A-Pocè partedellacollezione permanente del MoMA di NewYork.Maècon Pleats Plea-se Issey Miyake che, con una tecnica che permette alle pieghe di rimanere nella “memoria” del tessuto senza dover ripetere la pieghettatura nel tempo, crea vestiti finalmente facili da indossare per chiunque. L’universalità. «Insieme al mio team siamo sempre in cerca di nuove idee e di nuovi
modi per produrle» ci racconta mentre i più giovani designer dello studio gli sottopongono disegni e progetti. Lui ascolta tutti, con tutti è cortese, paziente. «Una delle cose che mi piace di più è visitare le aziende negli angoli più sperduti del Giappone. Con alcune di queste, ma anche con alcuni piccoli artigiani locali, lavoriamo da anni. E per me è molto importante il rapporto che si instaura. Hanno tutti una fortissima tradizione alle spalle ma sono anche sempre pronti a nuove sfide. Il Giappone ha una storia di conoscenze uniche in questo campo, una ricchezza che non è soltanto materiale ma direi spirituale. Purtroppo l’artigianato giapponese, soprattutto dopo il terremoto e lo tsunami che nel 2011 hanno sconvolto la parte orientale del paese, sta attraversando grandi difficoltà sia per mancanza di successori alla guida delle aziende sia a causa dei costi di produzione troppo elevati. Quell’anno proprio qui, al 21_21 Design Sight, abbiamo allestito dueesposizioni, The Spirit of Tohoku e The Art of Living in Tohoku, incentratesulla produzione artigianale tessile di quella regione devastata. Ma già nel 2007, proprio per sviluppare la collaborazione con le realtà di quelle zone, avevamo creato il Reality Lab.: un team che si occupasse esclusivamente di ricerca e sviluppo». È all’interno di questo laboratorio che nasce la collezione di abiti 1-32 5. Issey Miyakerealizzata con lo scienziato informatico Jun Mitani. Il risultato sono dieci cartamodelli (dalle forme identiche quando sono piegati) che si trasformano in camicie, gonne, pantaloni e vestiti, secondo le combinazioni di forme uguali in scale diverse. Sembrano origami, realizzati con una fibra poliestere prodotta attraverso la lavorazione di prodotti chimici riciclati. Un processo che permette di ridurre il consumo di energia e le emissioni di anidride carbonica di circa l’80 per cento. «Sono state quelle forme a ispirarmi le lampade In-Ei, che in giapponese significa ombra. Il concetto di base è la biodimensionalità dei materiali che poi diventano tridimensionali,
mentre il materiale utilizzato è un tessutonon tessuto ottenuto da bottiglie in Pet riciclate. In questo caso volevo sviluppare il progetto con un’azienda internazionale. Ho chiesto consiglio al mio amico Naoto Fukasawa e lui mi ha risposto che Ernesto Gismondi, presidente di Artemide, in quel momento era in visita a Tokyo. Più precisamente si trovava nel mio negozio. È così che ci siamo conosciuti e che abbiamo iniziato a lavorare insieme». Il link con Artemide è un’occasione unica per introdurre un argomento non previsto dai rigidi canoni dell’intervista. Le piace l’Italia mister Miyake? «Ho visitato molti paesi in Europa, e il vostro è uno di quelli che preferisco. Quando ancora ero uno studente ho visto molti film italiani e ne ho apprezzato i registi. Per citarne solo alcuni dico Vittorio De Sica, Luchino Visconti e Federico Fellini. Ma nel corso degli anni sono sempre stato ispirato dalla grande creatività italiana. Restando nell’ambito del design, per esempio, non appena ho iniziato a sviluppare il progetto Parfumsho subito pensato a due dei miei amici più cari, Shiro Kuramata e Ettore Sottsass, e li ho invitati a progettare la bottiglia. A loro abbiamo dedicato una mostra qui al 21_21. In quell’occasione abbiamo presentato anche i progetti di diversi anni prima. Era il 1996, e io avevo partecipato alla Biennale di Firenze il cui titolo era Il tempo e la moda. Hounbellissimo ricordo di quell’esperienza, ho potuto visitare Firenze, davvero una città fantastica, e sono stato onorato di poter mostrare i miei abiti in uno spazio meraviglioso come il chiostro di Palazzo Pitti. E poi c’è la cucina, naturalmente: ogni volta che vengo in Italia cerco di mangiare non piatti elaborati ma semplici, regionali, cucinati con ingredienti di stagione ».
Miyake ci invita a visitare con lui il 21_21, dove è in corso l’esposizione Toward a Desi-gn Museum Japan. Questospaziohaunvalore molto importante nella vita del designer. Nel2003ilquotidiano Asahi Shinbun pubblicò un suo appello in cui invitava le agenzie governative e le aziende private a unire le forze per aprire un museo del design in Giappone. Miyake voleva colmare un vuoto, considerata l’importanza del design per l’economia e la cultura giapponesi. Così nel 2007 nasceva il 21_21 Design Sight che da allora co-dirige con Naoto Fukasawa e Taku Satoh. Un sobrio edificio minimalista progettato da Tadao Ando. Ma è solo il primo passo. Un vero e proprio Museo del design dovrebbe aprire nei prossimi anni. «Pensiamo a un luogo in cui possano incontrarsi adulti e bambini, tradizione e contemporaneità, Oriente e Occidente, un luogo in cui si possa riflettere insieme sul futuro della società contemporanea ma anche in cui sia possibile esprimere l’eccitazione, l’emozione, la gioia di vivere e di fare le cose. Perché per me design significa vita, e progettare vuol dire creare il tempo in cui viviamo». Prima di salutarci gli chiedo quali consigli darebbe a un giovane designer. «Non pensare solo con la propria testa ma confrontarsi con chi lavora nelle aziende. Essere curiosi, osservare la natura, visitare mostre di arte e architettura. Ma, soprattutto, consiglierei di interessarsi alle persone: il designer ha una grande responsabilità sociale, dovrebbe pensare attentamente a ciò che la gente desidera per fare in modo che il suo stile sia compreso e infine usato». Socchiude gli occhi e, come se per un attimo tornasse con la memoria alle cose terribili che a nessuno dovrebbe essere consentito di vedere, ci congeda con queste parole e con un sorriso: «In fondo ciò che dobbiamo fare è solo trasmettere bellezza, gioia e — magari — anche un po’ di comodità».