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 2014  aprile 13 Domenica calendario

IL RITORNO IN PATRIA DEL MADE IN ITALY

Il fenomeno è mondiale, dall’America all’Europa. Negli Stati Uniti, fa addirittura parlare di rinascita dell’industria manifatturiera nazionale. Forse, gli americani esagerano. I numeri, però, cominciano ad essere indicativi, dice Luciano Frattocchi, dell’università dell’Aquila. Insieme a colleghi di Catania, Udine, Bologna, Modena e Reggio, Frattocchi ha costruito un gruppo di ricerca – UniCLUB MoRe – che tiene il conto. Negli Usa, sono ormai 175 le decisioni di rimpatrio, totale e parziale, di produzione. Ma dopo gli Usa, la classifica mondiale dei ripensamenti vede le aziende italiane, con un’impennata a partire dal 2009. Sono 79 unità produttive, che coinvolgono una sessantina di aziende. Circa il doppio di quanto si registra in Germania, in Gran Bretagna o in Francia. In un momento di diffusa paralisi del sistema industriale italiano, le condizioni a cui questi rimpatri avvengono, le loro motivazioni, le scelte strategiche che sottintendono riescono a dire molto, già oggi, di come potrà essere la ripresa prossima ventura dell’economia italiana.
Sulla Riviera del Brenta, non lontano da Verona, Gianni Ziliotto è sul punto di lanciare un progetto ambizioso per la B. Z. Moda. Produce scarpe da donna di fascia media (100-150 euro al paio) che esporta al 100%, soprattutto in Nord Europa. L’azienda è piccola – circa 11 milioni di euro il fatturato – ma Ziliotto pensa in grande. Rimpatriare il grosso della produzione dal Bangladesh e dalla Cina e puntare sui robot. «Si tratta di automatizzare 6-7 operazioni ripetitive, che oggi fanno solo gli extracomunitari » precisa. «Avremmo, invece, bisogno di periti e ingegneri ». É un investimento che si mangia, da solo, l’8-10% del fatturato e, per questo, Ziliotto si muove con i piedi di piombo. Ma è questa la strada maestra che sembrano indicare le ristrutturazioni che, nel mondo, America in testa, accompagnano il rimpatrio delle aziende. Il differenziale fra i salari cinesi e quelli occidentali non è più ampio come qualche anno fa e l’automazione consente di abbatterlo anche in patria. Insieme ai costi di trasporto è una delle motivazioni principali che spinge le imprese al “back-reshoring”, come lo chiamano Frattocchi e colleghi. «L’effetto netto sull’occupazione è che i posti di lavoro che si recuperano – conferma Frattocchi – non sono uguali, né per
quantità, né per professionalità, a quelli che si erano persi originariamente con la delocalizzazione». Del resto, i consulenti della McKinsey, la bibbia delle aziende, calcolano che, entro dieci anni, fra il 15 e il 25% dei posti di lavoro operai saranno occupati dai robot.
Eppure, se questo è un asse del futuro vicino, non è l’unico. Ce lo spiega la stessa bibbia McKinsey:
i robot sono dietro l’angolo, ma «le strategie manifatturiere costruite sul risparmio di costo del lavoro stanno diventando fuori moda». Le variabili in gioco sono di più e sono più complesse. Lo indica lo stesso fenomeno del back-reshoring italiano. A scappare erano state soprattutto le aziende del ciclo tessile-abbigliamento-calzature, colpiti al cuore dalla concorrenza dei salari cinesi o vietnamiti. Ma anche il grosso delle imprese italiane che tornano – quasi la metà – sono di quel settore. E meno del 14% motiva il cambio di strategia con i parametri di costo del lavoro. In media, nel mondo, quelli sono, invece, i fattori decisivi in quasi il 20% dei casi. Cosa spinge, allora, le aziende italiane dei jeans, delle borse e delle scarpe a ritentare l’avventura italiana?
Piquadro, 60 milioni di euro di fatturato negli accessori e nella pelletteria, oggi realizza l’80% della sua produzione in Cina e il 20% in Italia. Recentemente, tuttavia, ha deciso di riportare in Italia i prodotti della gamma più alta. «Li abbiamo affidati, come sempre – spiega l’amministratore delegato, Marco Palmieri – a terzisti,
ma stiamo pensando di aprire, in collaborazione con loro, una vera e propria fabbrica nostra, qui nella nostra zona tradizionale, l’Appennino tosco-emiliano». Il motivo si può riassumere nella qualità della produzione artigianale più sofisticata che, in Italia, raggiunge la massima espressione e che è impensabile di trovare in Cina. É la stessa molla che, l’anno scorso, ha convinto un’altra azienda di accessori, la Nannini di Pontassieve a riaffidare a fornitori italiani tutta la propria linea in pelle. La qualità, però, non è l’unico elemento su cui insiste Palmieri. «Noi – dice – vogliamo avvicinarci alle esigenze del cliente. Oggi, uno, sul nostro sito, si può costruire un prodotto tutto per sé, secondo il proprio particolarissimo gusto. E sempre più queste vendite tailor-made online si faranno in futuro. Ora, noi abbiamo sempre usato, per i nostri prodotti, pellami italiani. Cosa facciamo? Prendiamo il pellame, lo spediamo in Cina e poi, quando la borsa è pronta, la reimportiamo in Italia? Magari il cliente si stufa». Quelli della McKinsey ne parlano come di corsa all’“in-time delivery” ed è un altro dei motivi centrali del rimpatrio di molte aziende. Il 42% delle aziende censite da UniCLUB dichiara come decisivo per il rimpatrio l’effetto “made in”, made in Italy, nel caso. Una forma di “branding” nazionale, per dirla alla McKinsey, che schiude porte e spiana strade ed è una delle carte decisive della ripresa. Frattocchi racconta di un’azienda, ANDcamicie, che produce camicie in Cina e che è stata avvicinata da un imprenditore cinese che vorrebbe distribuire i prodotti AND in 40 diversi centri commerciali. Ad una condizione, però: che siano certificate come prodotte in Italia. A vendere camicie italiane made in China non ci pensa neanche.