Roberto Mania, la Repubblica 12/4/2014, 12 aprile 2014
SOLDI E POTERE IN PERICOLO, IL GRAND COMMIS È GIA’ SCESO IN TRINCEA
Il primo avvertimento, chiaro e netto, è arrivato solo qualche giorno fa. Direttamente all’indirizzo di Palazzo Chigi e non casualmente. I potenti giudici della Corte dei Conti hanno bocciato la nomina di Antonella Manzione a capo del Dipartimento degli affari giuridici della presidenza del Consiglio dei ministri. «Non ha i requisiti», hanno sentenziato. Il premier Matteo Renzi ha annunciato che non tornerà indietro e che ci riproverà, ma dalle forche caudine della Corte dei Conti dovrà comunque passare. E poiché è stata dichiarata una lotta, tanto più «violenta», non ci saranno esclusioni di colpi. La burocrazia si sta preparando a una lunga guerra di trincea.
Ai cittadini normali l’acronimo Dagl non dice nulla, ma i grandi burocrati ministeriali e i loro ministri sanno che da lì bisogna passare perché un provvedimento possa essere esaminato dal Consiglio dei ministri. Il Dagl, che sta per Dipartimento degli affari giuridici e legislativi, è il perno del processo decisionale del governo. Per questo Renzi vuole a capo una persona di sua fiducia. E, al contrario, non vuole che sia un giurista, un consigliere di Stato o qualcosa di simile, nonostante quel che dice la legge secondo cui, per quell’incarico, serve proprio un giudice delle supreme magistrature, ordinaria o amministrativa, un dirigente generale dello Stato, un avvocato dello Stato, oppure un professore universitario in discipline giuridiche. Insomma un membro dell’élite della nostra nomenclatura. Quella che dietro le quinte, con una politica sempre più debole,
governa il Paese scrivendo di fatto le leggi, applicandole, interpretandole, e anche ricorrendo al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte dei Conti quando c’è qualcosa che non va. Un circuito infernale che molto spesso, o quasi sempre, riporta al punto di partenza.
La Manzione, capo della polizia municipale di Firenze e direttore di Palazzo Vecchio, non appartiene alla categoria. Mentre lo era il suo predecessore Carlo Deodato, consigliere di Stato, licenziato da Renzi e dal sottosegretario Graziano Delrio. Lo stesso Delrio, inoltre, come segretario generale a Palazzo Chigi ha voluto il suo ex city manager di Reggio Emilia, Mauro Bonaretti, il quale ha preso il posto di Roberto Garofoli, che invece è consigliere di Stato, nominato capo di gabinetto al ministero dell’Economia, ruolo chiave per i provvedimenti di politica economica. Perché mentre a Palazzo
Chigi si stanno alzando le barricate per limitare al minimo i giureconsulti o i funzionari parlamentari, loro in buona parte dei ministeri ancora seduti sulle poltrone importanti.
Dunque la Corte dei Conti ha alzato, in tempi da record, il primo cartellino giallo. Ora bisognerà scriverlo diversamente il decreto di nomina, trovare la via giusta tra i meandri della debordante legislazione italiana. Perché se le norme si scrivono «in un certo modo», come ci spiega un membro autorevole della “categoria”, allora sì che possono passare il vaglio. Ed è questo un aspetto del potere dei burocrati. Anche così resisteranno alla guerra del governo, custodendo gelosamente le armi del mestiere. Pensiamo alle centinaia di regolamenti attuativi delle leggi varate dai governi Monti e Letta che ancora aspettano di essere varati. Chi li scriverà? È ov-
viamente una domanda retorica. Ma è chiaro che per inceppare la macchina amministrativa basterà molto poco. I potenti direttori ministeriali con i capi di gabinetto e i responsabili degli uffici legislativi, lo sanno bene.
Dietro la pronuncia della Corte dei conti c’è chi intravede anche un altro messaggio che ha a che fare con il prossimo decreto del governo che taglierà le retribuzioni degli alti burocrati, dei magistrati, dei presidenti delle Authority: dal tetto dello stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione (311mila euro) si passerà a quello dell’indennità del Capo dello Stato (238mila euro). Vuol dire una riduzione fino a
oltre 70mila euro l’anno. La burocrazia non ha apprezzato e manda segnali, appunto. E c’è chi si prepara al ricorso al Tar, oppure al giudice del lavoro per tutelare – come dicono - «un incarico in essere ». In molti casi giudicherà chi si trova nelle medesime situazione del ricorrente. E dopo il ricorso al Tar, quello al Consiglio di Stato.
Resisterà la nomenclatura per difendere i suoi “diritti acquisiti”. Anche con la fuga verso la pensione. Perché l’alta burocrazia è anziana e gode ancora del sistema retributivo per il calcolo dell’assegno pensionistico. Converrà lasciare prima per incassare di più. Il contrario di ciò che accade con chi ha il contributivo.
Resisteranno pure svolgendo rigorosamente le proprie funzioni. Spesso stando fermi in attesa di tutte le firme e i passaggi negli altri ministeri. Poi aspetteranno sempre «precisi indirizzi politici». Dilatando così i tempi per rendere operativi i provvedimenti. Sono i trucchi del mestiere di chi governa il vero processo decisionale. Perché l’obiettivo dei burocrati, asserragliati nelle loro stanze ministeriali, è di arrivare alla fine ad una tregua con Renzi. Questa guerra, però, è solo cominciata.