Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 12/4/2014, 12 aprile 2014
LA LATITANZA PREVENTIVA SVELATA DA UNA CIMICE
Il piano di fuga lo stavano studiando da tempo, avendo cura di non seminare troppi indizi. «Se io fossi Marcello prenderei un volo diretto per Tel Aviv», consigliava l’imprenditore catanese Vincenzo Mancuso al fratello di Marcello Dell’Utri, Alberto. Poi bisognava proseguire per il Libano: «Se è possibile andarci in macchina è meglio, anche se si fa due ore e mezzo... Aereo no... non bisogna lasciare traccia... Io non conosco le distanze, però non ci deve arrivare con l’aereo».
Altri consigli e indicazioni, per l’ex braccio destro di Berlusconi che pianificava la latitanza preventiva nella Terra dei Cedri, erano arrivate da Gennaro Mokbel, l’estremista nero degli anni Settanta divenuto uomo d’affari e condannato lo scorso anno a quindici anni di galera per la truffa Finmeccanica-Sparkle-Fastweb. «Devi avere gente sul posto che ti dà una mano, che t’aiuta... Questi sono bene sistemati...», dice Alberto Dell’Utri a Mancuso, spiegando che il fratello aveva scelto il Libano, probabilmente Beirut, «perché lì è una città dove Marcello ci starebbe bene, lui c’è già stato, la conosce, c’è un grande fermento culturale». Come dire che se la latitanza da preventiva doveva diventare stabile, una volta arrivata la sentenza definitiva, il bibliofilo condannato per mafia avrebbe potuto continuare a coltivare le sue passioni.
L’intercettazione avvenne a un tavolo del ristorante Assunta Madre in via Giulia a Roma, a pochi passi dalla sede della Procura nazionale antimafia, e risale alla sera dell’8 novembre 2013. Una microspia della Squadra mobile della capitale registrava i discorsi fatti all’interno del locale — molto ben frequentato tra professionisti, uomini di spettacolo e politici — nell’ambito di un’indagine su un presunto riciclaggio internazionale. Il 20 febbraio, quando la Procura di Roma lo trasmette a Palermo, quel frammento di conversazione diventa lo spunto per bloccare il progetto di fuga dell’ex senatore in attesa di pena definitiva (la Cassazione è convocata martedì per pronunciare quello che potrebbe essere l’ultimo verdetto). La Procura generale deve decidere come muoversi: chiedere l’arresto o una misura più blanda, il ritiro del passaporto?
La «cimice» della polizia aveva anche intercettato le confidenze di Alberto Dell’Utri sui documenti del fratello: «Lui è andato lì (intendendo Bruxelles, ndr ) insieme a questi della Guinea Bissau che lo hanno preso in seria considerazione, e gli hanno dato il passaporto diplomatico... gli hanno aperto le porte». E la questura di Milano, in un’informativa del 29 gennaio, aveva segnalato che l’ex senatore poteva disporre del suo regolare passaporto italiano e di carta d’identità valida per l’espatrio, ha casa a Santo Domingo, oltre a molti soldi; e già nel marzo 2012, alla vigilia del precedente giudizio in Cassazione, era andato all’estero. Che fare?
Quando manca più di un mese al verdetto finale, all’ufficio guidato da Roberto Scarpinato il carcere — già negato all’indomani dell’appello-bis, a marzo 2013 — sembra una misura eccessiva, perché la Cassazione potrebbe anche non confermare la condanna e ordinare un terzo processo. Si decide per il divieto d’espatrio, richiesto il 4 marzo. Sei giorni più tardi, il 10, la Corte d’appello risponde «no»: secondo i giudici, per i reati di mafia la legge prevede o l’arresto o niente. È una questione di diritto, legata all’interpretazione delle norme e di una sentenza della Corte costituzionale in materia.
La Procura generale insiste col tribunale del riesame per il ritiro dei passaporti a Dell’Utri. Ma venerdì scorso, 4 aprile, arriva un altro diniego. Stavolta per un motivo diverso: un’intercettazione acquisita da un altro procedimento può essere utilizzata solo se «indispensabile all’accertamento di delitti», o se riguarda «fatti relativi alla punibilità, alla determinazione della pena, alla qualificazione del reato, o riscontro di dichiarazioni accusatorie». Nulla di tutto ciò, secondo il Riesame, ha a che fare coi progetti di fuga di Dell’Utri. Quindi l’ex senatore resta libero e in grado di muoversi come crede, in Italia o all’estero.
Gli elementi raccolti dalla Direzione investigativa antimafia, delegata a monitorarne le mosse, certificherebbero la «irreperibilità» dell’ex senatore sul territorio nazionale «sin dalla seconda metà dello scorso mese di marzo». Il 3 aprile, alla vigilia del nuovo «no» al ritiro del passaporto, la Dia localizza un telefono cellulare in uso a Dell’Utri in Libano, «nelle vicinanze di Beirut». A quel punto la Procura generale chiede l’arresto, e stavolta la Corte d’appello lo concede: «Con tutta evidenza l’imputato intende sottrarsi all’esecuzione della sentenza, ove la stessa diventi irrevocabile». Di conseguenza «sussiste il concreto pericolo di fuga, in relazione all’entità della pena inflitta e in considerazione dei rapporti intrattenuti, in un lungo arco temporale (1974-1992) dal Dell’Utri con Cosa nostra che, com’è noto, tra le infinite attività illecite , annovera pure quella di dare assistenza ai latitanti».
Il provvedimento dei giudici è di martedì 8 aprile. Ma prima ancora che arrivasse l’ordinanza di custodia cautelare, nel pieno della diatriba giuridica tra i magistrati, l’ex senatore aveva avviato la sua «latitanza cautelare».
Giovanni Bianconi