Ferdinando Camon, La Stampa 12/4/2014, 12 aprile 2014
IL DELITTO DI YARA E LA DONNA CHE SA TUTTO
Sull’assassino di Yara il pensiero generale è questo: lui non si farà mai vivo, vivrà come potrà ma vivrà libero, ed è meglio libero che dentro. Il padre è morto, non fiata più. Amici che sappiano probabilmente non ce ne sono. Dunque, tocca a noi trovarlo, e non sappiamo come. Ma non è così. C’è una persona che sa tutto. È la madre. La donna che ha fatto un figlio insieme con quell’autista di pullman, a quest’ora sa bene (ovunque viva, anche in Cambogia) che suo figlio è l’assassino.
Qui scatta un problema psicologico col quale tutti ci siamo confrontati: se un padre o una madre scoprono di avere un figlio assassino, lo denunciano o no? Cinema e letteratura e psicologia hanno ragionato sul problema, e rispondono che la madre tende a proteggere il figlio, il padre è più incline a denunciarlo. Perché la madre incarna il senso di protezione, di chiusura, di autodifesa: il bene è il bene della famiglia, e denunciare un figlio non fa il bene della famiglia. Il padre tiene le relazioni della famiglia col mondo, la famiglia ha dei legami col mondo, il bene della famiglia sta nella salvezza di questi legami. I lettori, in Italia e nel mondo (la storia di Yara e l’interminabile caccia al killer con l’esame del Dna sta facendo il giro del mondo), e specialmente le lettrici, sono portati e «comprendere», empaticamente, la madre dell’assassino: del rapporto con l’autista non le resta che quel figlio segreto, salvandolo salva tutto quello che ha, non lo tradirà mai. Ogni donna farebbe così, pensano le lettrici. E ognuna aggiunge: anch’io. È un figlio-assassino, ma pur sempre un figlio. Si tratta di salvare la vita del figlio. La vocazione materna è questa.
Ma la vita dell’assassino che non espia non è vita, la vita è un’altra cosa. Nessuno di noi sa come si comporterebbe nelle stesse condizioni, se cioè reggerebbe la sofferenza necessaria per denunciare un figlio, ma credo possa capire che è questo che dovrebbe fare: vivere, parlare, mangiare con un figlio che ha ucciso, non si può. Non si è collegati con l’umanità. E lui ha diritto a ri-collegarsi. Questo è il suo bene. Sto dicendo che per chi ha ucciso andare in prigione «è un diritto», l’ultimo, l’unico che gli resta. Denunciando un figlio e facendogli scontare la colpa, lo salvi al rapporto con te e con tutti, sia quando è in carcere sia dopo, quando esce. L’assassinio è la colpa delle colpe, non ha rimedio perché non ha correzione, non puoi richiamare in vita chi hai ucciso, «l’assassinio non è punibile», chi ha ucciso e vien punito deve arrivare alla comprensione che per quanti anni debba scontare, sono sempre meno di quelli che merita. È la tesi di Dostoevskij. Alla fine di «Delitto e castigo» Raskòlnikov piange in carcere, quando fa i conti degli anni che deve ancora scontare. Trova che sono pochi: vorrebbe che fossero molti di più. Questa è la redenzione. Che farà sì che la vita che resta possa dirsi vita. La madre dell’assassino di Yara, sottraendolo alla giustizia, gli sottrae o gli ritarda il ritorno alla vita. Non importa che il figlio voglia star fuori, non voglia confessare, e obblighi la madre a star zitta: lui ha il diritto di «entrare in carcere», e ci sono diritti che non si sa di avere, ma non per questo cessano di essere diritti. Se la madre riesce a nascondere il figlio assassino finché lei muore, non avrà mai vissuto un frammento di vita col figlio. E se il figlio resterà nascosto fino alla propria morte, e morirà ingiudicato e incondannato, non avrà vissuto neanche un minuto di vita degna di essere vissuta. Se però questo è il legame fra quella madre e quel figlio, allora il figlio ha respirato questo rapporto fin da quando è nato. Ed è per questo che ha ucciso. Facendogli sentire questa protezione oltre l’assassinio, la madre ha ucciso insieme con lui. E adesso, tacendo, protegge se stessa, il proprio errore, il proprio fallimento.