Carlo Annese, GQ 11/4/2014, 11 aprile 2014
IO, SEDUTO AL POSTO DI AYRTON
[Emanuele Pirro]
«Prima di conoscerlo, pensavo che essere un bravo pilota fosse un dono divino e che qualcuno ne fosse dotato più di altri. Da quando sono stato a contatto con Senna ho capito che quel dono si costruisce ogni giorno. La differenza tra un campione e un buon pilota sta nell’intensità della guida, nella dedizione e nell’attenzione maniacale ai dettagli». Per quattro anni Emanuele Pirro, ex pilota di F1 e vincitore di 5 edizioni della 24 Ore di Le Mans, è stato una sorta di controfigura di Ayrton Senna (e del suo compagno di scuderia Alain Prost) dopo averlo affrontato sin dai tempi dei kart. Dal 1988 al ’91 è stato il collaudatore ufficiale della McLaren e spesso, per mettere a punto la macchina, gli ingegneri di Ron Dennis gli chiedevano di guidare come il brasiliano. «Ma era impossibile», ricorda oggi. «Senna era unico, da un punto di vista tecnico prima ancora che per lo spirito competitivo, superiore alla media già straordinaria degli avversari».
E vero che i suoi meeting tecnici erano leggendari?
«Erano interminabili, fin da quando era in Formula 3, dove non esisteva la telemetria e i progettisti si affidavano alle sensazioni dei piloti. Ayrton ha portato la descrizione del comportamento dinamico della macchina a livelli estremi: la coloriva e la riempiva di particolari. Tante volte gli ingegneri non ne potevano più di ascoltarlo in piena notte dopo un Gran Premio. Prost, al contrario, era essenziale, andava dritto al punto in pochi minuti».
Era difficile, quindi, mettere a punto la sua macchina?
«Un aneddoto può spiegarlo. Nell’89, dopo il GP del Portogallo mi fu chiesto di collaudare la durata di un nuovo motore che la Honda avrebbe voluto far debuttare nella gara successiva. Mi venne mostrato il grafico del modo in cui Ayrton aveva guidato sul circuito di Estoril perché lo ripetessi per adattare la resistenza del propulsore agli stress che lui gli avrebbe imposto. A quel tempo le marce si scalavano con il cambio a mano. Il motore girava a 13.500 giri, a 14.000 si sarebbe rotto: per tutto il Gran Premio, lui aveva scalato le marce facendo cadere il motore da 13.600 a 13.900 giri, che è una cosa quasi impossibile, richiede un timing pazzesco e un piede particolarmente sensibile. Ho provato a rifarlo durante il collaudo, ma non ci sono riuscito».