Giorgio Terruzzi, GQ 11/4/2014, 11 aprile 2014
AYRTON SENNA – [SONO GIÀ PASSATI VENT’ANNI DA QUEL GIORNO MALEDETTO A IMOLA]
È stata, soprattutto, una questione di tocco. Piede destro sul pedale del gas, per correre in quel modo suo soltanto, perfetto e furente. Parole a sfiorare il cuore, per offrire una visione più complessa e ampia rispetto ai modi e ai toni di ogni altro, piazzato come lui al centro di una scena. Viaggiava inseguendo uno stato di grazia, un senso mistico, una perfezione e un tormento. Abbastanza veloce da sbalordire, abbastanza sincero da sconcertare. Per questo Ayrton Senna è rimasto qui, nei pressi di chi ama le corse, nella memoria di chi si innamorò di lui pur a distanza; nella fantasia di chi ha potuto avere solo foto, filmati, racconti. Magari gonfiati da un lutto senza conforto.
I dati sportivi sono eclatanti ma spiegano solo in parte. Tre titoli mondiali vinti in quattro anni (1988, ’90 e ’91), 41 vittorie, lo sproposito di 65 pole position su 162 corse. L’ultima a Imola, poche ore prima di morire.
Era il primo maggio 1994. Ayrton guidava per la terza volta una Williams che non gli piaceva, rigida come una sedia elettrica. Rincorreva l’ultimo “doppio”, Michael Schumacher, affamato e ambizioso al punto da metterlo sotto subito. Era convinto che la Benetton di quel tedesco così arrogante, così veloce, fosse irregolare per un sistema di controllo trazione proibito.
Aveva negli occhi l’incidente spaventoso accaduto il venerdì a Rubens Barrichello. Brasiliano come lui, non solo un avversario: un ragazzino da trattare, eccezionalmente, con riguardo. Soprattutto, aveva negli occhi il sangue. Nel naso, l’odore della morte. Roland Ratzenberger, austriaco, sprovvisto di talento, di curriculum, di fortuna. Ucciso da uno schiaffo tremendo alla Tosa, il giorno prima. Uno spettacolo mai visto neppure per lui che a sguazzare in quell’inferno era abituato, il più bravo di tutti.
Da quel primo maggio 1994 sono passati vent’anni, durante i quali si sono persi alcuni elementi decisivi. Come è morto Senna? Piantone dello sterzo rotto, spezzato. La macchina che va via dritta, va a sbattere contro il muro della curva Tamburello. Un braccio della sospensione che si ritorce e colpisce la testa come una lancia.
La dinamica agghiacciante sta a margine, tuttavia, di una scena pietosa e persino quieta. Il casco reclinato per un tempo infinito, inquadrato dalla telecamera dell’elicottero. Un breve spasmo per illudere che fosse, alla fine, poca cosa. La consapevolezza tardiva che quel piccolo movimento era stato un gesto d’addio. La vita che dava uno strappo, fuggendo via. Questa, più di ogni altra, l’immagine della fine. Tragica e stranamente composta, dopo quel fragore. Silenzio. In pista a Imola, in tribuna, nei bar, in ogni casa. Un silenzio interminabile. Durante il quale ciascuno di noi ebbe il tempo di fissare dettagli e coordinate. Il senso profondo di un patrimonio perduto. «Se domandi a chiunque dove si trovasse quel giorno, in quel momento, otterrai sempre una risposta precisa». Lo disse Lucio Dalla, tempo dopo, mentre le note della sua canzone Ayrton vagavano alte nella stanza, a due passi da piazza Maggiore.
Ma certo, ma sì. Perché avevamo a che fare non soltanto con un pilota di straordinario talento. C’era dell’altro percepibile con facilità, indicato in tre lingue parlate perfettamente proprio da lui, così cocciuto nel cercare di dare un senso al proprio fare. Anche quando quel fare, il suo, sfuggiva a ogni tentativo di decifrazione. Pretendeva che i meccanici stringessero con una forza suprema le cinture di sicurezza mentre cacciava fuori tutta l’aria dai polmoni. Restava nel box ore e ore, a studiare ogni minimo dato, conquistando l’ammirazione dei tecnici, pronti a farsi in quattro per lui.
Gli stavi davanti minuti sessanta, lui in macchina durante un collaudo: non ti vedeva, niente, zero. Stava altrove, a caccia di una linea perfetta e sua soltanto per poi, magari, rimproverarti a fine giornata: «Ma come, arrivi solo ora?». Cercava, Ayrton. Andava a caccia di una perfezione e per questo non se la godeva affatto, tutto preso dalla necessità di restituire ciò che aveva ricevuto. Il denaro di una famiglia ricchissima; il talento del fuoriclasse. Molto, troppo, per un ragazzo cresciuto a San Paolo con la visione della povertà, delle fatiche altrui, impresse a fuoco sulla cartilagine dell’anima. Così avanzava, così appariva. All’inseguimento. Avversari, certo, come elementi di un disegno più ampio. La ferocia destinata alle corse come parte integrante di uno stato di grazia da tener d’occhio in continuazione. Faceva i conti, Ayrton. Con se stesso e con Dio, cui riservava un confronto autarchico e continuo. Anche di questo raccontava, senza paura, senza pensare di risultare ridicolo o pazzo. Unico anche lì, esposto. Nudo. Alla fine, irresistibile. Certo com’era di porsi senza alcun velo soprattutto di fronte al Signore, si esponeva a un pubblico sconcertato, per dire che Dio l’aveva visto a figura intera, saliva al cielo mentre lui andava a vincere il suo primo titolo in Giappone. Per dichiarare di aver colpito Prost di proposito, sempre Giappone, 1990, vendicando così il torto subito un anno prima, proprio lì, quando venne squalificato, regalando allo stesso Prost il Mondiale.
Alain Prost, il primo vero specchio, insieme in McLaren per un duello devastante. Capace di metterlo in una difficoltà necessaria e di rendere preziosa la sfida. Perché a lui ogni sofferenza serviva come il pane. Era l’ingrediente decisivo per provare un’intima soddisfazione, una tregua breve. Questo resta, è rimasto. La sensazione di avere avuto di fronte un pezzo unico. Un uomo alle prese con la propria ombra eppure capace di scaricare lampi di luce accecanti. Ferocia e tenerezza. Gesti eccelsi e lontanissimi dai nostri e poi qualcosa che ci riguardava, che aveva a che fare con un dubbio presente, consueto, roba da comuni, affannati esseri umani.
Se n’è andato quando cominciava, forse, a respirare più profondamente. Non voleva ragazze attorno in pista, dovendo sciogliere i propri nodi, prendendosi le cattiverie distribuite da chi lo descriveva omosessuale dentro un mondo profondamente maschilista. Eppure si era innamorato. Una ragazzina, ma sì, che importa, Adriane, per la quale era pronto a sfidare suo padre, così preoccupato di tenere a distanza ogni vera o presunta speculazione. Aveva definito con sua sorella Viviane i dettagli della Fondazione Senna. Una struttura vera e propria che avrebbe potuto spalmare un filo di balsamo sui suoi crucci da privilegiato. Aveva firmato un contratto con Audi per l’importazione delle auto tedesche in Brasile. Il suo nome era diventato un marchio gestito con estrema abilità. Al punto da rassicurarlo su ciò che sarebbe potuto accadere in un tempo non troppo lontano, quando si sarebbe trattato, finalmente, di frenare.
Sid Watkins, inglese, medico responsabile in pista per la Formula 1, era un suo vecchio amico. Il 30 aprile lo intercettò sul luogo dell’incidente di Ratzenberger. «Ayrton lascia perdere, non correre domani, ci sono tante altre cose da fare», gli disse. «Hai vinto tre Mondiali, sei il miglior pilota del mondo. Non hai bisogno di rischiare ancora. Andiamocene a pescare». Senna rimase a lungo in silenzio prima di rispondere: «Ci sono cose che sfuggono al nostro controllo. Ho bisogno di continuare» (da Life at the Limit: Triumph and Tragedy in Formula One, di Sid Watkins).
E poche ore prima di morire, mentre provava collegato via audio con la cabina dei telecronisti francesi in cui stava Prost, ormai ritirato, aveva detto, all’improvviso: «Alain, mi manchi». Una carezza, concessa così, a sorpresa, nelle sue ultime ore. Un colpo di scena dentro un teatro saturo. Come se di un momento supremo si trattasse. Ogni anno vado a trovarlo. Il cimitero di Morumby è un’oasi silenziosa e verde nel caos di San Paolo. Mi siedo nell’erba, a fianco della targa “Nada pode me separar do amor de Deus”. Facciamo due ciarle. È lì che ho chiesto il permesso: una notte intera nella sua ultima stanza d’albergo. La suite 200 dell’Hotel Castello, a Castel San Pietro, vicino a Imola. Con la convinzione che di una notte fuori ordinanza si fosse trattato (ne è venuto fuori un libro, Suite 200, appena pubblicato da 66thand2nd, ndr).
Ayrton aveva molti pensieri per la testa quella sera. Aveva visto in pista un cadavere, per la prima volta, da vicino. Aveva un amore che metteva in crisi il rapporto con la famiglia. Aveva una casa in Algarve, Portogallo, scelta come alternativa al suo posto del cuore, Angra dos Reis, dove era diventato impossibile concentrare i propri affetti. Quello per il padre, Milton, quello per la fidanzata, Adriane. Aveva un campionato da vincere e uno svantaggio da recuperare. Aveva tra le mani i nastri registrati dalla famiglia mentre Adriane telefonava a un ex fidanzato. Consegnati proprio quella sera dal fratello, Leonardo, nella suite. Aveva chiesto che la corsa fosse annullata poche ore prima, invano. Aveva predisposto molti elementi della vita futura. E aveva la sua Bibbia, rilegata in rosso, sul comodino alla sinistra del letto.
Questo c’era allora, queste tracce ho cercato tra le pareti della stanza, con l’intenzione di scrivere un libro sull’ultima notte di Ayrton. Non immaginavo quanto fosse naturale incontrarlo di nuovo. Lui, con quella strana delicatezza, sorridente e vivissimo, mentre, seduto sul letto, ascolta il canto degli uccelli di primo mattino. Per questo, del resto, lì andava. Come un bambino che con niente, soltanto, si diverte.