Nanni Delbecchi, Il Fatto Quotidiano 8/4/2014, 8 aprile 2014
Nanni Delbecchi per il "Fatto quotidiano" Il Martini perfetto è come lo Yeti: vive tra i ghiacci, ma nessuno l’ha mai visto"
Nanni Delbecchi per il "Fatto quotidiano" Il Martini perfetto è come lo Yeti: vive tra i ghiacci, ma nessuno l’ha mai visto". La definizione si legge in Martini Eden (Nutrimenti), delizioso volumetto appena arrivato in libreria. Sei racconti d’autore (Filippo Bologna, Gianfranco Calligarich, Carolina Cutolo, Sapo Matteucci, Massimo Morasso, Filippo Tuena), guarniti da altrettante ricette, perché nessun Martini è uguale a un altro, e il confine tra vermouth e gin (e dell’oliva, che per molti è irrinunciabile) è mobile quanto quello tra realtà e immaginazione. Uno, nessuno e centomila Martini, mitologia che abbraccia innumerevoli film, romanzi, dive, dandy, registi e soprattutto scrittori. E che pure, in questo mondo di master-chef, appare in declino come tutta la cultura del bere miscelato. Nonostante ciò, abbiamo voluto sfidare il suo fascino inafferrabile: in compagnia di tre sherpa di prim’ordine (Cutolo, Matteucci, Tuena) ci siamo incamminati tra i ghiacci di un bar romano per provare a evocare lo spirito di questo Yeti gentile, e capire qualcosa di più dell’attrazione tra alcol e ispirazione. A forza di domandare, a un certo punto il Martini ha risposto. Forse la sua voce era una suggestione, ci è parso solo di sentirla (quando se ne beve più di uno, può capitare); in ogni caso, questa è la fedele trascrizione di quanto abbiamo udito. Caro Martini cocktail, da dove nasce la sua leggenda? Forse dal fatto che mi baso su equilibri molto delicati. Ognuno ha la sua ricetta. Quando vengo preparato, basta un nulla per cambiare il sapore, e perfino il senso, proprio come quando si scrive una frase. Sono essenziale ma complesso, disperatamente elegante come lo è stata la migliore letteratura del Novecento, l’età dell’ansia. Non per nulla il bicchiere del Martini evoca una clessidra. E così è diventato il migliore amico di tanti scrittori. Non solo loro. Sono socievole con tutti, un compagno di conversazione, un compagno di avventure. Poi, se qualcuno decide di scriverle, quelle avventure, affari suoi. D’altra parte, questa è la vocazione di tutti i cocktail preparati a regola d’arte. Su questo non c’è dubbio. Su sette premi Nobel americani del secolo scorso, cinque erano alcolizzati: Sinclair Lewis, Faulkner, Hemingway, Eugene O’Neil e Steinbeck. Ma si potrebbero aggiungere i nomi di Malcolm Lowry, Dylan Thomas, Scott Fitzgerlad, Carver, Truman Capote, Anne Sexton, Elizabeth Bishop, Robert Lowell, per arrivare fino a Charles Bukowski e Mordecai Richler. Lei come se lo spiega? Ci sono motivazioni storiche, a partire dal fascino trasgressivo che il proibizionismo diede all’alcol, e in particolare al gin, la bevanda fornita all’esercito inglese per dare la carica ai soldati. Da qui, l’idea che l’alcol favorisca l’ispirazione, le "generazioni perdute" che fino agli anni Cinquanta elessero a loro residenza fissa i bar di Parigi, Londra e New York. Allora non c’erano scuole di scrittura, né factory, né talent show. Solo gare di boxe, e sfide a chi beveva di più. La rivalità, anche alcolica, tra Hemingway e Faulkner è proverbiale. Che è la rivalità tra gin e whiskey. C’è una lettera in cui Hemingway scrive a Faulkner: "Sai che quando ti manca il bourbon sulla pagina si vede ?", poi gli elenca punto per punto quali sono quelle pagine. Ernest Hemingway, il più grande scrittore bevente. Difficile batterlo. E impossibile battere i suoi personaggi. Anselmo, il protagonista di Per chi suona la campana, a un certo punto dice: "Il whisky ammazza quel verme che ti divora dentro". Ecco, forse bevevano per uccidere i vermi senza nome, i fantasmi che divorano. O forse per conviverci il più a lungo possibile, perché senza fantasmi non si scrive. La musa anglosassone è sempre stata la più assetata? Non sottovaluterei la musa russa. Bisogna sostituire la vodka al gin, ma il prodotto non cambia. Da Tolstoj a Dostoevskij, fino a Venedikt Erofeev, l’autore di Mosca sulla vodka , il più grande romanzo alcolico con Sotto il vulcano. Per Erofeev, l’alcol è la grande liberazione dal regime e insieme la fonte dell’immaginazione artistica, ossia l’unica rivoluzione possibile." E in Italia? Anche l’Italia ha il suo cocktail nazionale, lo inventò il conte Negroni al bar Giacosa di Firenze di ritorno da un viaggio a Londra. Il barman gli stava preparando il Milano-Torino, vermouth e Campari. E lui: "Artemio, mettici un po’ di gin!". Un colpo di genio. Unico e solitario. Per il resto, la musa alcolica italiana va a vino. Niente età dell’ansia, niente disperazione metropolitana, l’ispirazione è molto più rustica e provinciale, come la musica di Verdi o la poesia di Carducci e Pascoli, grandi bevitori. Per non parlare del Leopardi. Leopardi? Altro buon bevitore, per sua ammissione. Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare si chiede dove si può trovare l’unico conforto della vita, quello capace di trasportarlo dal buio della notte al "bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto". E la risposta è: "In qualche liquore generoso". Mentre D’Annunzio, a sorpresa, era astemio. Completamente. Nonostante avesse inventato il liquore Aurum, spendeva i soldi solo in fiori e in cocaina. Da questo punto di vista è stato il più anticipatore di tutti. Tender is the nightTender is the night Veniamo ai nostri giorni, caro Martini cocktail. Quanto è cambiata la cultura del bere alcolico? Molto. Fino agli anni Sessanta la prima regola del saper bere è stata mai più di due spiriti alla volta. Adesso invece vanno i cocktail con più zucchero, più ingredienti e più shakerati. Per intenderci, tutto il contrario del sottoscritto. Perché? La mia sensazione è che la fretta abbia rovinato tutto. Bisogna fare tutto nel modo più forte possibile, nel minore tempo possibile. Anche sbronzarsi. Dall’età dell’ansia siamo passati all’età dell’affanno. Non ci sono più i barman di una volta? Ci sono ancora ottimi barman, ma in pochi seguono i comandamenti della vecchia scuola: lentezza, esattezza e geometria. Un vero barman, poi, sa mescolare gli ingredienti ma anche gli umori, capisce al volo che tipo di cliente ha davanti ed è pronto a farsi raccontare la storia della sua vita. Temo che la fortuna degli psicoterapeuti sia cominciata con il declino dei barman. Ora vanno di moda i barman acrobatici, i giocolieri dello shaker. Siamo in piena società dello spettacolo, si sentono tutti come Tom Cruise in Cocktail. Ma quello è un film, anche bruttino. In realtà, non c’è nulla di più triste che sedersi davanti al banco di un barman acrobatico, e magari dover assistere a un suo sbaglio. Oggi anche la letteratura è più shakerata? Sì, se con questo intendiamo la scrittura che cerca di stupire a ogni pagina. Velocità, facilità e suspense, come vuole il mercato. Per forza poi che i libri sono fatti in serie. Scrittori acrobatici, anche loro aspiranti Tom Cruise. Vogliamo salutarci con un brindisi al personaggio letterario che beve meglio? Volentieri, ma non sono sicuro della risposta. In Di là dal fiume e tra gli alberi il colonnello Cantwell beve troppo per bere bene. Anche James Bond non mi convince, è proprio lui a inaugurare la moda dello shaker con il suo Vesper Martini. La Babette di Karen Blixen non beve granché di suo, però offre ai suoi ospiti il meglio del meglio: Borgogna e fratellanza. E poi c’è il grande Gatsby. Ma anche lui non beve. No, però alle sue feste si versano fiumi di gin e di champagne, si ubriacano tutti meno lui. Gatsby soffre e muore per amore, che è molto peggio di qualsiasi Martini. E viene il sospetto che tutti gli altri bevano così tanto per non fare la sua stessa fine.