David Ritz, RollingStone 11/4/2014, 11 aprile 2014
RENDIAMO GRAZIE A MARVIN
MARVIN GAYE era, più di ogni altra cosa, un predicatore. E il suo sermone si chiamava What’s Going On. Credo che sentisse di doverlo fare ancora, voleva cantare del Signore che amava in modo così sincero. Ma non lo sapremo mai. Se n’è andato un grande artista, uno che aveva la stessa grandezza di Michelangelo e la stessa dolcezza di Mozart, e tutto quello che possiamo fare è ringraziare le forze che lo hanno fatto comparire tra noi. La sua battaglia contro la vita e il suo conflitto edipico sono finalmente terminati, e ora lui riposa in pace. Marvin Gaye ha composto la sua personale tragedia greca, la storia di un ragazzo che prima diventa uomo e poi diventa Dio, e finisce divorato dalla sua stessa demoniaca spinta autodistruttiva. L’ombra nera che per molto tempo ha aleggiato intorno a lui si è dissolta.
Marvin Gaye cantava con le lacrime nella voce. Aveva il blues dentro. La sua depressione era profonda come il Grand Canyon, le pene d’amore dolorose e prolungate. Il romanticismo esasperato come quello di Keats, il poeta “mezzo innamorato della facile morte”. È stato un nomade a Maui, un artista bohémien a Topanga Canyon, un nobile a Londra, una star hollywoodiana a Palm Springs, un esule nella ventosa Ostenda, in Belgio. Ma tornava sempre a casa da sua madre, a Gramercy Place, il quartiere della middle class nera di L.A., a un paio di isolati dallo studio di registrazione di Ray Charles su Washington Boulevard. In quella stessa casa Marvin Gaye è stato ucciso. La casa in stile Tudor anni ‘30 in cui passava il tempo seduto sulle scale d’ingresso salutando i ragazzini che andavano a scuola.
Come il padre, impiegato alle poste a Washington D.C., non ha iniziato come predicatore, ma come lui ha trovato la sua strada verso il pulpito. È successo nel 1971, quando il suo capolavoro socio-religioso What’s Going On è diventato una pietra miliare della musica americana. E questo disco, insieme all’altro capolavoro Here, My Dear, l’apice della sua produzione secolare, che lo ha fatto entrare nella storia. Ma fin dall’inizio Marvin è stato tormentato dalla lotta interiore tra la purezza della creazione artistica e la sua commercializzazione.
I tre uomini che lo hanno fatto entrare nel mercato musicale, gli unici tre capi che Marvin abbia mai avuto nella vita, Harvey Fuqua, Berry Gordy e Larkin Arnold, hanno da subito colto la grandezza della sua arte. Hanno capito il suo genio introverso e tormentato, lo hanno coccolato e viziato, senza però riuscire a placare i suoi conflitti interiori.
Marvin era un ribelle, provocava i suoi capi così come aveva fatto con ogni tipo di autorità, inclusa quella paterna. Ma tutte queste figure paterne lo hanno fatto crescere e sono riusciti a tirare fuori da lui amore sotto forma di musica.
Fuqua lo ha portato nei Moonglows, uno degli stellari gruppi doo-woop degli anni ’50. Marvin non credeva nelle sue capacità come cantante. I suoi compagni, gente come Chuck Barksdale, avevano una voce più potente della sua. «Avevo un po’ di estensione vocale, ma in confronto a quei ragazzi ero piccolissimo», mi disse la prima volta che lo incontrai. Avevo appena finito di collaborare all’autobiografia di Ray Charles, Brother Ray, e stavo scrivendo The Man Who Brought the Dodgers Back to Brooklyn. Marvin aveva letto una mia lettera sul Los Angeles Times in cui criticavo la recensione scadente del suo album Here, My Dear. La nostra era un’amicizia limpida, basata sulla fiducia. Ho immediatamente abbandonato tutti i miei progetti, ho smesso di scrivere il mio romanzo quella sera stessa e ho dedicato cinque mesi a Marvin. Era il mio idolo e aveva bisogno di compagnia, di uno scambio intellettuale. Io vivevo sulla Wiltshire, a un paio di miglia dalla casa dei Gaye. Parlavamo per ore, in studio di registrazione o nella cucina di casa con sua madre. Sono andato in tour con lui e mentre viaggiavamo sulla sua limousine o sul lussuoso Greyhound trasformato in tour bus abbiamo gettato le basi per scrivere insieme un libro, la storia della sua vita.
«La trama è meglio di quella di Via coi Vento» mi ha detto con uno dei suoi sorrisi furbi, «faremo milioni di dollari». I soldi gli piacevano, anche se gli scivolavano dalle mani come acqua. Voleva essere sicuro che avessi capito le cose fondamentali: Harvey Fuqua lo ha portato a Detroit, Berry Gordy e l’impero della Motown si sono presi cura di lui, Fuqua ha sposato una delle sorelle di Gordy, Gwen, e lui ha sposato l’altra, Anna, più vecchia di lui, con lo stesso fiuto per gli affari del fratello, che l’ha aiutato a diventare una star. La sua prima hit Stubbom Kiwi of Yellow, in cui diceva di essere un “Ariete con la testa dura” era pura autobiografia: «Mio padre è l’unico uomo che conosco più testardo di me».
Marvin scriveva di se stesso, delle sue relazioni con le donne, dei sentimenti verso il padre, la madre e il fratello, della paura di morire, del rapporto ambiguo con il sesso (e ogni tipo di piacere in generale), della venerazione verso Dio. All’inizio non voleva cantare rhythm&blues, voleva essere pop come Nat King Cole, ma diceva che la Motown non gliel’aveva permesso. I dischi dei primi anni ’60 però mostrano chiaramente che Berry Gordy ha tentato di venderlo come il nuovo Sam Cooke. Marvin ha fatto dei pezzi pop raffinati e curatissimi, ha interpretato Mona Lisa come un crooner, ha fraseggiato come Miles Davis in My Funny Valentine e fatto il botta e risposta con l’orchestra come Frank Sinatra in One for My Baby (and One More for the Road). Ma queste cose non vendevano. È stato il groove contagioso della sua versione dei pezzi dance della Motown, cose come Pride and Joy, You’re a Wonderful One, Ain’t That Peculiar, a farlo emergere. Marvin diceva sempre che Con I Get a Witness, scritta per lui dal trio Holland-Dozier-Holland nel 1963 era l’esempio migliore di questo suono frenetico. La struttura a botta e risposta di questo pezzo ha creato il suo stile e ha svelato la verità della sua musica: Marvin Gaye era un appassionato cantante di chiesa.
Molto prima che Fuqua lo portasse a Detroit, Marvin cantava i poderosi spiritual centenari dei suoi antenati nella casa dei genitori nel quartiere popolare di East Capitol, Washington D.C. In quella stessa casa, suo padre predicava, consacrava i fedeli ungendoli con olio di oliva e spiegava i precetti della Chiesa della Santità Pentecostale, che osservava il sabato e seguiva le stesse regole sull’alimentazione degli ebrei ortodossi. Ho incontrato il Reverendo Gaye in diverse occasioni. Una volta io e Marvin eravamo a casa sua a L.A. Lui mi stava parlando del suo eterno conflitto con il padre. Era il 1978.
«Gli vuoi bene?», ho chiesto.
«Sì», mi ha risposto in un tono di voce leggero.
«Allora perché non glielo dici?».
«Perché non lo dici tu a tuo padre?», mi ha detto rigirandomi la domanda, come faceva spesso.
«Lo farò se anche tu lo farai», ho ribattuto io.
Ha accettato, a patto che lo facessi io per primo. Ho chiamato mio padre a Dallas e gli ho detto che gli volevo bene. Marvin si è tirato indietro: «Non ce la faccio», ha sospirato, con gli occhi a terra.
«Posso vederlo io? Se devo scrivere questo libro, prima o poi devo incontrare tuo padre». Ero curioso di conoscere quest’uomo che mi era stato descritto come una specie di eremita.
«Prova».
Ho bussato alla porta della camera da letto al piano superiore e il Reverendo Gaye mi ha aperto, la Bibbia in mano. Abbiamo parlato per ore. Ero affascinato dalla delicatezza delle sue mani e dalla sua profonda conoscenza della Bibbia. Io ero seduto in una vecchia poltrona, lui parlava dal bordo del letto, era intenso, articolato, autorevole. Aveva una mente lucida e brillante. Come suo figlio, era un fiero interlocutore che si esprimeva con un linguaggio di rara grazia. Abbiamo discusso dell’Antico Testamento e poi mi ha spiegato che il suo secondo cognome, Pentz, era quello del dottore che l’aveva fatto nascere. Dopo questo primo incontro ho coltivato la mia relazione con lui, gli telefonavo, gli portavo dischi di gospel, chiedevo informazioni. Non siamo mai stati amici, ma lui era lusingato dal mio interesse e nel vedermi trascrivere con precisione le sue parole nei miei appunti. «Mi dà fastidio essere chiamato nero. Il colore della mia pelle è chiaramente marrone, non mi piacciono le osservazioni imprecise».
L’ultima volta che ho visto il Reverendo Gaye è stato prima del mio viaggio in Belgio, quando ho raggiunto Marvin e abbiamo scritto Sexual Healing.
«Ringrazio il genio di mio figlio Marvin, onoro il suo talento e mi rifletto nella sua gloria», mi ha detto.
Anche Berry Gordy celebrava il suo talento. Quando Marvin non scriveva i suoi pezzi da solo, Gordy gli metteva a disposizione i suoi uomini migliori, Smokey Robinson, William Stevenson, Eddie e Brian Holland e Lamont Dozier. La sua versione di I Heard It Through the Grapevine del 1968, che sembrava un inno alla potenza del Continente Nero, ha venduto 4 milioni di copie. Ma all’inizio degli anni ’70 Marvin era concentrato su quello che stava succedendo in America. Suo fratello Frankie, anche lui cantante, era stato in Vietnam e ne era sopravissuto. Il racconto delle atrocità a cui aveva dovuto assistere lo aveva toccato profondamente. Dentro di lui era cresciuta l’insofferenza verso la violenza della società americana. Tutto questo lo ha portato alla dichiarazione di intenti spirituale di What’s Going On. Marvin ha cominciato a parlare di sé come di «un uomo di colore pieno di rabbia». La sua arte rifletteva la vita nel ghetto, dove “alcuni di noi sentono soffiare il vento gelido della povertà” (Right On). Il suo lamento “Padre, Padre, non c’è bisogno di esagerare così” non era solo una presa di posizione politica, ma un’invocazione ai suoi veri padri, quello terreno e quello divino. La frustrazione di What’s Going On viene alleviata nel finale, ma solo attraverso la lezione di suo padre, ovvero la parola di Gesù. Questo disco rappresenta anche il momento emozionante in cui tutte le variazioni della sua voce (tenore naturale, falsetto da angelo, burbera tonalità media) sono state liberate insieme. Le sovraincisioni hanno creato una stratificazione di suoni sensualissimi, un trio o addirittura un quartetto di Marvin Gaye con se stesso, una cosa di una bellezza tale da incendiare l’anima.
«Mia madre mi faceva cantare sempre. Mi diceva: “Alzati e canta Journey to the Sky”. In chiesa le donne mi abbracciavano e mi tenevano stretto. Era una cosa sensuale, mi piaceva». I suoi dischi d’amore sono semplicemente irresistibili. Nel primo, Lets’ Get It On, concepito con Ed Townsend, Marvin mormora, ringhia, sussurra, grida. In I Want You (1976), prodotto da Leon Ware, c’è una sensualità più eterea e distante. Marvin non è mai stato uno tenero, ma qui è come sei si fosse lasciato andare a deliziosi preliminari. Nell’album Live!, registrato a Oakland, il pezzo Jan introduce la seconda passione bruciante della sua vita, Janis Hunter, figlia del jazzista Slim Gaillard e molto più giovane di lui, così come la prima moglie Anna Gordy era molto più grande. Ha avuto con entrambe un rapporto ossessivo e conflittuale, che ha dato vita a una musica sempre più intensa. Il suo divorzio con Anna, una disputa legale brutale, ha ispirato Here, My Dear del ’78, un doppio stroncato dalla critica e ignorato dal pubblico, ma che è in realtà straordinario, un complesso monologo ulteriore che ha la stessa profondità e sensibilità di un’opera come Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman trasportata in chiave soul.
Una notte, mentre ascoltavamo Sparrow nel suo studio di registrazione su Sunset Boulevard, gli ho letto una poesia di Percy Shelley, A un’allodola. Come il poeta, anche Marvin invocava la sua musa. Negli anni successivi Marvin ha registrato molte ballad per voce e archi, seguendo il vecchio desiderio di fare musica pop, ma non sono mai state pubblicate. Secondo lui la Motown le giudicava troppo poco commerciali. «Mi porto dietro queste canzoni da 10 anni, ma ci ho messo una sola notte per cantarle. E una vita intera di dolore per raggiungere la saggezza necessaria a farlo».
Nel 1979 il suo secondo matrimonio è andato a rotoli. Afflitto da problemi economici, Marvin ha lasciato l’America e il nostro progetto di scrivere un libro. È andato in Inghilterra, passando prima dalle Hawaii. L’album che gli avevo visto produrre era finito, si intitolava Love Man e la copertina, che lo ritraeva in una posa sexy, era già stata stampata. Gli ho fatto notare che Otis Redding aveva pubblicato un disco con lo stesso titolo 10 anni prima, ma non gli importava. Poi però si è perso nella sua depressione e ha abbandonato il progetto perché era «troppo superficiale». Ha preso le melodie e le strutture ritmiche, le ha registrate a Honolulu e Londra e le ha rimodellate nelle canzoni di In Our Lifetime.
Marvin non voleva farlo uscire (terrorizzato che non vendesse abbastanza o che non fosse all’altezza dei precedenti), poi la Motown lo ha pubblicato senza il suo consenso. Dobbiamo essere grati all’etichetta di Berry Gordy per questo capolavoro incompleto. Le canzoni non sono del tutto finalizzate, ma documentano il ritorno di Marvin ai temi spirituali di What’s Going On. Questa volta però ha alzato il tiro. Ne In Our Lifetime si dice convinto che l’olocausto nucleare sia ormai imminente: «A volte una canzone può essere una profezia, un avviso dal Signore». In Love Me Now or Love Me Later dialoga con il diavolo e in Love Party ripete le esortazioni che sentiva nelle prediche di suo padre: prega Dio, ricorda che “la vita non è eterna e che c’è tempo solo per cantare, pregare e fare una festa d’amore”.
La pubblicazione non autorizzata di In Our Lifetime mette fine ai suoi rapporti con la Motown. Sulla copertina, disegnata da lui stesso, due Marvin si fronteggiano seduti su un trono tra le nuvole, mentre l’America viene distrutta da un’esplosione nucleare. Uno ha le ali, l’aureola e una colomba in mano, l’altro ha le corna e il mantello di Satana. Si sfidano a scacchi, come fa Dio con gli uomini secondo lui: «Gli uomini si credono intelligenti e scherzano con il Signore», mi ha detto una notte mentre camminavamo nella Grand Place di Bruxelles, «ma è stato il Signore a inventare il gioco. Egli ha creato ogni cosa».
Nella primavera del 1982 abbiamo passato due settimane insieme in Europa. La nostra amicizia si è rafforzata, abbiamo anche ricominciato a parlare dei nostri progetti letterari. E le nostre conversazioni, che di solito si svolgevano da mezzanotte all’alba, sono riprese esattamente da dove si erano interrotte, Marvin era ferito, portava ancora addosso le conseguenze dolorose della sua fuga dagli Usa, ma l’umore era alto. Era sopravvissuto. Si stava riprendendo. «Mi vedo come un generale. Sono andato in Belgio non per ritirarmi, ma per raccogliere le mie truppe e lanciare un nuovo attacco».
Aveva trovato un nuovo mentore, Larkin Arnold della CBS, che voleva a tutti i costi rimetterlo in piedi. I soldi ricominciavano a girare. Aveva anche per le mani una nuova traccia strumentale, composta da uno dei suoi collaboratori, Odell Brown. Avevo la sensazione che non stesse cercando un’altra canzone che parlasse di sesso, ma qualcosa di più confortante. Cercava la pace ulteriore, la quiete dopo la tempesta, una qualche forma di risoluzione del conflitto che viveva in modo straziante tra la chiamata di Dio e le tentazioni del sesso. Diceva persino di voler farsi monaco. Gli ho suggerito che forse aveva bisogno di una «cura sessuale», lui ha riso e ha detto che era d’accordo. Ha cominciato a cantare una melodia sugli accordi di Odell, io ho buttato giù un testo, abbiamo improvvisato per mezz’ora e alla fine abbiamo scritto Sexual Healing.
Il giorno dopo siamo andati a Bruxelles e alle 3 del mattino ci siamo presentati come due studentelli orgogliosi nella stanza di Larkin Arnold all’Hilton per far sentire il nostro demo a lui e a Curtis Shaw, amico e confidente di vecchia data di Marvin. «La balleranno in tutto il mondo», mi ha detto Marvin.
Intanto Arnold alzava il telefono e diceva ai suoi capi in America che secondo lui Marvin Gaye aveva appena consegnato qualcosa di grosso. Dopo tre anni di assenza, nel 1982 Marvin è tornato in America, non per promuovere Sexual Healing, ma per far visita alla madre: Alberta era sopravvissuta a una difficile operazione. Marvin invece, ennesima ironia della sorte, non è sopravvissuto al ritorno al successo. E così la nostra amicizia. Abbiamo litigato per i diritti di Sexual Healing e ci siamo allontanati. Leggevo sui giornali le storie sul suo declino e la sua sofferenza, e gli scrivevo poesie in cui lo invitavo a comporre musica spirituale. Niente però poteva negargli la gioia del ritorno al successo, e del riconoscimento a lungo atteso ai Grammy Awards.
L’ultimo tour del 1983 con Marvin sul palco in uniforme da ammiraglio con le mostrine d’oro o in pigiama di seta è stata una metafora della sua vita vissuta sempre nell’occhio del ciclone. Un giorno Quincy Jones mi ha suggerito un’immagine per descrivere Marvin. Diceva che aveva «un gene sbagliato». «È un uomo bellissimo, musicalmente è un mostro», mi ha detto Quincy, «ma ogni tanto il suo gene sbagliato fa emergere il suo lato oscuro». Quella notte ho scritto il testo di una canzone, Trick Gene, che poi è stata cantata da James Ingram.
Mama gave him all sorts of love / Papa laid on the strap / This cat’s satin silky voice / Put him on the map ( La Mamma gli ha dato tutto l’amore del mondo / Il Padre gli dava solo cinghiate / La sua voce di seta / Lo ha fatto conoscere al mondo, ndr).
Il mio ricordo più bello di Marvin Gaye è una mattina del ’79, con suo figlio Marvin III al parco divertimenti a San Josè. Scherzavamo sull’idea di scrivere un’opera religiosa, volevamo dipingere quadri musicali come Giotto o Cimabue sulla vita di Cristo. Lui voleva che scrivessimo un romanzo che parlasse del ritorno di Gesù in Israele. L’idea non mi piaceva. «Perché sei troppo ebreo. Ne parliamo dopo, sull’ottovolante». Abbiamo passato il pomeriggio a riderci sopra, circondati da centinaia di fan. Marvin adorava l’attenzione del pubblico, non si è mai rifiutato di fare un autografo. Gli piaceva intrattenersi con gli aristocratici inglesi. Si considerava il discendente di un principe africano. Marvin Gaye era un uomo pieno di amore. Amava tutta la sua famiglia. La sua intelligenza e la varietà dei suoi interessi culturali facevano di lui un misto tra Charlie Parker e Malcolm X. Conosceva il Corano e i testi del Buddismo. La sua fede cristiana è diventata sempre più profonda man mano che le sue disgrazie personali crescevano. Credeva fermamente nei miracoli di Gesù, ha anche invocato il suo nome nell’ultima traccia dell’ultimo album. La sua interpretazione più ispirata è una versione poco nota di His Eye Is on the Sparrow, nell’album In Loving Memory dedicato a Loucye Gordy, la sorella di Berry Gordy morta nel 1965. La sua voce, come quella di Mahalia Jackson, si leva in volo oltre i confini del cielo, per arrivare nelle braccia di Dio. E lì che ora Marvin Gaye riposa, finalmente in pace.
Quando la voce di un angelo viene liberata, bisogna rendere grazie. Nel caso di Marvin Gaye ci sono molte cose da celebrare. Ha lasciato un’eredità preziosissima. Il dono del suo genio e la sincerità della sua predicazione in forma di musica fanno parte della nostra storia. Non è morto e non morirà mai. Il messaggio della sua musica è l’amore, e l’amore vive per sempre.