Francesco Alò, RollingStone 11/4/2014, 11 aprile 2014
MANIACO DEI DETTAGLI E DI STILE
[Wes Anderson]
“VORREI VIVERE in un film di Wes Anderson, vederti in rallenty quando scendi dal treno”. Lo cantavano I Cani nel 2010, quando il cinema di questo eccentrico signore texano era già diventato un punto di riferimento esistenziale oltre che estetico. Ralenti (noi preferiamo scriverlo così, ndr) elegantissimi, regia simmetrica, costumi emblematici, umorismo rarefatto. “E i cattivi non sono cattivi davvero. E i nemici non sono nemici davvero. Ma anche i buoni non sono buoni davvero, proprio come me e te”, come cantava Niccolò Contessa in quel divertente brano. Ha cambiato look (da timido nerd occhialuto dai capelli irti a creatura dandy tutto tweed e velluto in stile Willy Wonka), ha flirtato con l’animazione in stop motion (Fantastic Mr. Fox), ha appena vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino. Come già in Rushmore, I Tenenbaum, Il treno per il Darjeeling e l’ultimo Moonrise Kingdom, anche Grand Budapest Hotel vede l’esilarante storia di amicizia paterna tra una vecchia guida affascinante e pericolosamente imprevedibile – il maturo concierge Monsieur Gustave H. (Ralph Fiennes) – e un giovane uomo da formare – il suo imberbe assistente fattorino Zero Moustafa (Tony Revolori). Lo scenario è un grande albergo di una località termale sui picchi delle montagne di un fantomatico Stato dell’Europa dell’Est, di nome Zubrowka.
Dopo il corto Hotel Chevalier, torna il tuo interesse per il microcosmo dei grandi alberghi internazionali. Perché?
Non lo so. Luis Buñuel adorava gli hotel. Andava spesso in specifici alberghi e ristoranti di alberghi, dove scriveva e lavorava. Non so se utilizzasse molto la carta, per le sue sceneggiature, sembra che essenzialmente parlasse con i suoi collaboratori. Gli alberghi sono posti affascinanti per chi opera nell’industria del cinema, che ci passa tanto tempo. Per Grand Budapest Hotel abbiamo preso possesso di questo albergo a Görlitz, in Sassonia. Un luogo piccolo, splendido. L’albergo è drammaturgicamente allettante, perché tante vite diverse si incontrano e tu, come creatore, sai che drammi e commedie in quel momento si stanno svolgendo attorno a te.
Quindi l’albergo è il protagonista del film?
Esatto. Sono partito dalla domanda: come dovevano essere questi grandi hotel internazionali, 80 anni fa? Allora si passava più tempo negli alberghi e gli staff di queste strutture gigantesche lavoravano insieme per anni. Lo scopo del film è ricreare quelle atmosfere.
Dopo Moonrise Kingdom, in cui il tema della ricerca genitoriale era addirittura più forte dell’amore folle tra ragazzini, torni a raccontare la ricerca di un rapporto paterno extrafamiliare tra Monsieur Gustave H. e il piccolo Zero Moustafa. Sei d’accordo?
Sì. Entrambi i personaggi sono privi di un passato identificabile e completamente soli. Non hanno una famiglia attorno a loro e formano un legame molto forte di natura padre-figlio con un cambiamento nel corso dell’avventura. All’inizio Fiennes è un padre severo, sostanzialmente un capo.
Ma tutti i nostri padri sono stati dei capi, no?
Più nel passato che in questi giorni. Oggi meno. E la cosa mi dispiace.
Perché?
Adesso si dice: “Non guardarmi come un padre, sono tuo amico”. Un tempo non era così e io lo preferivo. Tornando al film, penso che gradualmente i due personaggi diventino fratelli, piuttosto che padre e figlio. Il potere passa da Gustave a Moustafa, ma all’inizio Gustave ricopre il ruolo del padre autoritario.
Perché questo interesse quasi ossessivo per la ricerca di un nuovo padre? È in quasi tutti i tuoi film...
Non lo so. Forse perché da piccolo, ma anche quando avevo 18 o 20 anni, ho sempre avuto amici dell’età di mio padre. Sono sempre stati molto importanti per me, quasi dei mentori. Passavo tanto tempo con loro. Erano personaggi molto drammatici, esuberanti, eccentrici, imprevedibili. Il fatto che ritornino nei miei film è forse un rimando a quegli strani uomini che frequentavo fuori dalla mia famiglia naturale.
Il film appare gigantesco. Lo possiamo considerare un kolossal?
È una produzione piuttosto impegnativa. Non ci sono delle scene di guerra o di battaglia, ma ci sono dei soldati. È una produzione per me ambiziosa, perché abbiamo dovuto ricostruire molti periodi storici. Ci sono anni cruciali del Novecento. Cominciamo negli ’80 e poi andiamo nei ’60 per poi finire nei ’30, ’40 e ’50. Ci sono i grandi interni dell’albergo, una prigione, un capitolo complesso ambientato sulle Alpi, un monastero, un osservatorio, parecchi treni. È un film in costume, quindi è complesso.
Qual è stato il più complesso, per te?
Per Le avventure acquatiche di Steve Zissou girammo ben 100 giorni. È stato enorme, costoso e lungo. Penso che questo lo sia altrettanto, ma per quanto riguarda l’esperienza oggi so di essere migliorato come regista e che potrei rigirare quel film nella metà del tempo, visto che ho un approccio differente al mestiere, decisamente più veloce. I miei film possono sembrarvi sempre simili, ma il mio processo di lavoro è sicuramente cambiato negli anni.
Com’è possibile che capiamo perfettamente da una singola inquadratura che ci troviamo in un film di Wes Anderson?
La risposta è nel segno grafico. Può forse capitare la stessa cosa, e non lo dico con presunzione, riguardo a Federico Fellini, Tim Burton o Terry Gilliam. Registi che disegnano, hanno un tratto unico, come le animazioni di Terry Gilliam ai tempi dei Monty Python. Ancora oggi quelle animazioni in cutout (ottenute cioè riprendendo figure ritagliate fotogramma per fotogramma, ndr) sono estremamente riconoscibili. Si può indovinare anche un film di Ingmar Bergman da una singola inquadratura, ma in un modo diverso. Ad esempio, per come riprendeva il volto degli attori e per come lavorava con il direttore della fotografia Sven Nykvist. Io non disegno bene come Fellini, Burton o Gilliam, ma ho sempre disegnato e i miei film derivano sempre da vignette, abbozzi di quadri e da un articolato storyboard. Quando preparo un film, disegno l’inquadratura; parte del processo è usare le tue stesse mani, un pezzo del tuo corpo. Penso che questo uso delle proprie mani porti il pubblico, e voi critici, a vedere in un certo senso l’artista, la sua identità in forma quasi fisica, all’interno di un’inquadratura. Una cosa che esce dalle tue mani è più riconoscibile come estensione individuabile della tua personalità.
Il progetto indie rock italiano I Cani ti ha dedicato una canzone già nel 2010, in cui il desiderio era quello di vivere in un tuo film come simbolo di un universo originale, ironico e ricco di eccentrica umanità. Lo sapevi?
No. Che cosa carina. Li ringrazio molto e cercherò di ascoltare il pezzo.
Come mai non c’è neanche un ralenti nel film?
Perché non ce n’era bisogno.
Ma è il tuo marchio di fabbrica! È una cosa che comincia a darti fastidio?
A volte non ho voglia di esprimermi tramite qualcosa per cui sono estremamente riconoscibile. Vorrei evitarlo, l’ambizione sarebbe fare sempre qualcosa di diverso. Ti confesso che spesso sono consapevole del fatto che sto per fare qualcosa che io stesso, prima di voi critici e del pubblico, so benissimo di aver già fatto in passato. Spesso penso: “Ok... se non ho un’altra idea per risolvere registicamente questo problema... allora è meglio ricorrere a un espediente stilistico che so potrebbe cavarmi d’impaccio come altre volte è successo”.
Pensi che il tuo stile così riconoscibile possa essere una prigione?
Ho la mia scrittura, come se fosse una calligrafia, e penso che lo spettatore la riconosca. Ho dovuto accettare nel corso del tempo che il pubblico sia in grado di riconoscere il mio stile. Spesso mi capita di girare una scena come non ho mai fatto in passato, rendermi conto che è venuta fuori malissimo... e quindi tornare sui miei passi per rifarla come avevo fatto altre volte, perché l’originalità aveva prodotto una catastrofe! So che posso risultare pazzo. Ma è così. Il mio caro amico e collega Roman Coppola (fratello di Sofia, ndr), con cui ho collaborato spesso in passato, è quello che mi stimola di più a concentrarmi sul mio stile personale senza aver paura di ripetermi. Mi dice: “Fallo così, Wes, Questo è il tuo stile. Non tradirti. Il pubblico ti amerà proprio per la ripetizione di certi clichés”. Roman ha un’influenza psicologica molto forte su di me. In passato mi ha aiutato tanto, da questo punto di vista.
Un’altra anomalia è che in Grand Budapest Hotel non c’è nemmeno una canzone pop nella colonna sonora. Come hai lavorato alla musica in questo caso?
Il mio fido supervisore musicale Randall Poster è stato fondamentale, come sempre. Abbiamo ascoltato molta musica dell’Est europeo. Ci siamo innamorati della musica di Cuore di vetro di Werner Herzog, per cui sonorità medievali, jodel, molto cembalo. Abbiamo studiato una compilation di un’orchestra nota per suonare la balalaika classica. Dopo ho lavorato con Alexandre Desplat, che conosceva benissimo sia la balalaika che il cembalo: ha riunito un’orchestra moscovita regina della balalaika che ha registrato a Parigi molte tracce che poi abbiamo utilizzato. Abbiamo quindi contattato un noto musicista di cembalo ungherese che vive ad Amsterdam e un altro maestro di cembalo inglese con cui abbiamo registrato altre tracce a Londra. Infine, abbiamo inserito nella colonna sonora anche il corno alpino, uno strumento fantastico che emette una sola nota. Lo usavano per comunicare da una montagna all’altra. Hai presente?
L’abbiamo visto ne Il Signore degli Anelli...
Esatto! Però il corno classico è più sottile rispetto a quelli che abbiamo visto nei film di Peter Jackson. Concludendo: è una colonna sonora figlia dell’Europa dell’Est. Bavarese e russa, mi verrebbe da dire. Questo è il mood. C’è anche un’aria di Vivaldi. Non c’era spazio per una canzone pop. Non era adatta per il film che avevo in mente.
Mi sembra che il luogo influenzi sempre più la tonalità dei tuoi film...
Mentre preparo un film mi viene naturale prendere qualcosa dalle location e quando scrivo e faccio il casting – e ci metto dai tre mesi a un anno, a seconda del film – cerco di vivere con la storia attraverso il luogo che voglio descrivere. Quando sono nel luogo mentale del mio prossimo film, questo diventa anche un luogo fisico da cui rubare oggetti, odori, suoni, persone e atteggiamenti che posso usare. Il mio compito è far vivere una storia e per farlo ho bisogno di dettagli. Per questo film abbiamo viaggiato molto e poi abbiamo trovato questa piccola città, Görlitz, dove abbiamo deciso di fermarci. Allora ho deciso di usare delle golfcar per percorrere questo spazio e attraversare una realtà senza che fossimo protetti da vetri o carrozzerie troppo complesse. Eravamo “aperti” al mondo e ci fermavamo ogni volta che vedevamo qualcosa di bello e curioso. È così che ho girato il film. Oppure irrompevo sul set a piedi, perché l’albergo dove vivevo era lì vicino.
Il film diventa dunque anche il luogo dove si gira il film?
Certo, ecco perché ti dico che oggi farei Le avventure acquatiche di Steve Zissou in modo completamente diverso: in quel caso abbiamo lavorato tanto, forse troppo, in un luogo astratto come Cinecittà. E anche solo il fatto che ci volesse un’ora per raggiungere gli studi da qualsiasi punto di Roma ne ha in un certo senso complicato le riprese, lo ha reso troppo astratto. Ho capito solo con il tempo e l’esperienza che preferisco lavorare in luoghi non per forza estremamente professionali come Cinecittà, che comunque amo, ma cittadine tranquille come Görlitz. Il centro di Roma è troppo dispersivo. Avremmo dovuto vivere e lavorare solo a Ostia o ad Anzio.
Come pensi di essere cambiato, ora che sei al tuo ottavo film?
Mi considero sempre un avventuriero. Ma sono diventato più riflessivo. In passato girava voce che volessi creare il caos sul set senza una presa di coscienza reale. Forse era vero. Quello che voglio ora è un’esperienza artistica preparata, controllata. Perché i problemi ti cercheranno sempre durante un film, quindi è sempre meglio non cercarli tu per primo! Ogni film è una nuova avventura, e mi ha permesso di avere amici in tante parti diverse del mondo. Questo è bello perché ogni opera porta dentro una fase specifica della mia vita: questa è quella della disciplina.
Come vedi il tuo futuro?
Imprevedibile. Grazie al cielo finora non mi sono mai trovato nella posizione di dire: “Ok... ora ho davvero capito cos’è un film di Wes Anderson”. Forse dovrei essere più sicuro di me. Ancora oggi mi sento già fortunato se riesco a finire di scrivere una sceneggiatura!