Riccardo Staglianò, il Venerdì 11/4/2014, 11 aprile 2014
L’UOMO CHE COSTRUÌ UN IMPERO FACENDO MIGLIAIA DI FOTO BRUTTE
NEW YORK. In principio fu il croissant. Trovare paste che sembrassero appetitose anche in due dimensioni, sistemarle bene nel piatto, con una bella luce. Poi persone che leggevano il giornale, altre che aspettavano l’autobus. Per illustrare i concetti chiese ai suoi amici di posare. «Hai conosciuto Jason?» domanda alla portavoce californiana Meagan Kirkpatrick. «Era lui il surfista delle prime foto. E ogni tanto scherza che dovrebbe chiedermi dei diritti per essersi prestato». Non è un’idea peregrina. In quel primo anno autarchico Jon Oringer, di professione informatico, scattò da solo 30 mila foto delle situazioni più disparate. Era il seme di Shutterstock, un archivio che, dieci anni dopo, è cresciuto in una giungla di quasi 400 milioni di immagini vendute. Gli affari vanno così bene che meno di un anno fa hanno spostato gli uffici al ventunesimo piano dell’Empire State Building. I simboli sono importanti. E l’accostamento con King Kong, che si arrampica sul tetto del mondo e terrorizza la civiltà, nonostante la mitezza da smanettone di Jon, non è del tutto fuori luogo. Intendendo, in questo caso, per civiltà l’industria fotografica come l’abbiamo conosciuta, con i professionisti ben pagati, le agenzie a fare da intermediari e tutto il resto. Un’istantanea che, ogni giorno di più, sembra ingiallire.
La Silicon Alley, versione newyorchese dell’originaria Valley, ha più classe nell’arredamento. Sedie di noce in stile scandinavo, divanetti rivestiti di stoffa grigia, pavimento industrial. Il trentanovenne Jon, camicia azzurra fuori dai jeans e Adidas Gazelle ai piedi, mi riceve in un salottino dalla veduta spettacolare. Su un trespolo è appoggiata una chitarra dello stesso punto di colore delle sedie. «Io ho iniziato sviluppando un software che bloccava i pop-up, le fastidiose pubblicità che online invadono lo schermo» racconta. «È andata benone sin quando Microsoft ha incluso un programma simile nel suo browser». Per pubblicizzare il prodotto mandava migliaia di mail a vari indirizzari. Alcune foto che allegava motivavano di più il potenziale acquirente, altre meno. «Fu lì che mi resi conto che non c’erano posti online dove trovare immagini giuste a prezzi decenti». Decise di diventare la soluzione.
«Le foto scattate da me non erano affatto belle. Eppure vendevano benissimo. Così insistetti». Era e resta un programmatore. Nel 2003 costruisce il primo sito, lo rende facilmente cercabile con un buon motore e i tag, le categorie tematiche con cui catalogare le immagini. L’azienda è cresciuta a ritmi del 30 per cento all’anno. Adesso impiega 350 persone, che hanno l’aria allegra e pasciuta che si respira nei corridoi di Google, nonostante le dieci ore medie di lavoro. Sarà la sala yoga, o quella a tema Alice nel paese delle meraviglie in cui chiunque può rinfrancarsi giocando ai videogame (siamo pur sempre nella provincia orientale di Nerd-landia). «Circa 60 persone collaborano dall’esterno per valutare le foto che ci arrivano. Tendenzialmente scartiamo otto fotografi su dieci e, tra quelli accettati, oltre cinquantamila, rifiutiamo circa la metà di quel che ci propongono». Crowdsourcing sì, ma non di bocca buona. Chi però è ammesso nella scuderia non deve fare altro che aspettare che qualcuno scarichi la sua foto, per cifre che vanno da un quarto a 120 dollari («la media è 2-3 dollari»).
È un business, come la maggior parte di quelli internettiani, con bassi margini e basato sulla quantità. L’autore prende il 30 per cento, a Shutterstock resta il 70 per cento (lo stesso rapporto di chi pubblica libri su Amazon), in cambio del quale il sito allestisce la vetrina, la rende facilmente consultabile e investe trenta milioni di dollari all’anno per pubblicizzarla. Su una parete del salottino, per tener alto il morale, è appeso uno schermo che dà in tempo reale l’andamento degli acquisti. Qualcuno ha appena scaricato dal Kazakistan una foto con parola chiave palestra scattata da un americano. Globalizzazione visuale estrema, a un ritmo di tre immagini al secondo. «Ma è più frequente il caso contrario» spiega la portavoce, «perché nell’ex Unione sovietica nessuno rispetta il diritto d’autore e i fotografi di quelle zone hanno trovato in noi una fonte interessante di guadagni».
Dice Jon che anche il sito italiano sta crescendo molto, ma non altrettanto l’offerta, «scriva pure: fatevi avanti!». È difficile fare una media di quante foto vadano vendute per portare a casa sui 500 dollari al mese, ma giurano che è un risultato alla portata di molti. «I nostri migliori fornitori arrivano a fatturare centinaia di migliaia di dollari all’anno» assicura Oringer.
Stanno potenziando l’offerta video e succede che anche produzioni televisive di successo, come la serie House of Cards, si riforniscano da loro. Corbis e Getty, i grandi archivi, sentono il fiato sul collo. E il secondo di recente ha annunciato che regalerà decine di migliaia di foto per uso personale. Che però è un’altra cosa.
Nel 2009, nel libro Uno per uno, tutti per tutti (Codice), lo studioso di nuovi media Clay Shirky raccontava l’inarrestabile carica dei dilettanti a danno dei professionisti. Scriveva: «Ogni consumatore è oggi un potenziale produttore con l’intero mondo come potenziale pubblico». Il bilancio di quella profezia, millimetricamente azzeccata, non è sempre entusiasmante. Bene smantellare i vecchi monopoli corporativi, meno proletarizzare ogni professione. Nello stesso anno chiudeva, dopo oltre trent’anni di onorata attività, l’agenzia Grazia Neri, che rappresentava, tra gli altri, Robert Doisneau. Chiedo a Oringer se non si sente chiamato in causa. «No, non sono io il killer delle agenzie. Il mercato si evolve di continuo e bisogna evolversi con lui per non scomparire. A parte che anche moltissimi professionisti vendono attraverso di noi, chi è un professionista? Per me uno che si guadagna da vivere facendo un certo mestiere. E noi, democratizzando l’accesso, abbiamo aumentato la ricchezza complessiva invece di ridurla». Con una sensazionale redistribuzione. D’altronde c’era da aspettarselo. Parafrasando Cechov e Maria Antonietta, se vedete una brioche nel primo capitolo, aspettatevi che prima o poi scoppi una rivoluzione. Molte teste sono rotolate, altre seguiranno. E al posto del Baiser de l’hôtel de ville avremo centinaia di gattini su YouTube. Ma sorridiamo comunque, magari qualche paparazzo amatoriale da cento scatti al minuto nella sua indistinta compulsione sta fotografando, per sbaglio, anche noi.