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 2014  aprile 11 Venerdì calendario

PERCHÉ BORGHESE DA QUESTE PARTI È ANCORA UN INSULTO


Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del Paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento.
In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei Paesi Occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca. Democrazia? Per i russi normali, soprattutto nella periferia del Paese, spesso è quasi una parolaccia. La nuova borghesia? Sulle rive della Moscova la parola suona un po’ dispregiativa. La prepotenza del regime contro un oligarca democratico come Khodorkovskij, che voleva sfidare Putin alle urne? Per moltissimi, sotto le mura del Cremlino, è il minimo sindacale di un atto di giustizia contro i tanti oligarchi arricchiti e non sazi di soldi e di potere. Ucraina, Crimea, prezzo del gas... una continua commedia degli equivoci che rende impossibile capirsi. E tutto comincia nei «terribili» Anni Novanta.
La notte del 25 dicembre 1991 i russi non riuscirono a dormire. Il giorno prima erano cittadini di un Paese, l’Unione Sovietica; da quel momento, non lo erano più. Fu uno shock. Milioni di persone di nazionalità russa si ritrovarono, abbandonati dalla Madrepatria, cittadini di Paesi che non li volevano e che spesso, come è accaduto nelle Repubbliche baltiche, negavano loro i diritti minimi della cittadinanza. Erano fratelli, padri, amici di una vita. Ma non c’era tempo, né forza per occuparsene. Presto le cose cominciarono ad andare peggio di quanto mai si sarebbe potuto immaginare. Arrivò la politica del Fondo monetario e degli Harvard’s Boys, introdotta dal governo di Boris Eltsin: liberalizzazione e privatizzazione. Fu chiamata «terapia shock». Uno shock sullo shock. La promessa era che alla fine del tunnel ci sarebbe stato un Paese finalmente libero, democratico e benestante. I russi si fidavano, erano pronti ai sacrifici. Pensavano che l’Occidente, essendo stato capace di offrire benessere, democrazia e giustizia a casa propria, lo avrebbe fatto anche da loro. La fiducia crollò lentamente, ma inesorabilmente, sotto i colpi della realtà.
Sotto gli occhi impotenti della gente, per il bene del Paese, le aziende cominciarono a essere vendute per un prezzo vicino allo zero, tra 1’1,5 e il 2 per cento del loro valore. In tutto, lo Stato realizzò dall’operazione circa il 10 per cento del valore effettivo, beni mobili e immobili inclusi. Alle persone normali fu dato un pezzo di carta, si chiamava voucher, che era l’equivalente della quota a cui avevano diritto. Valevano 10 mila rubli. Tatjana Fjodorovna, l’anziana mamma di una mia cara amica, fu la prima a pronunciare quella che credevo fosse una battuta: «muzhiki prodadut za butil’ku», gli uomini lo venderanno per una bottiglia. Ci volle poco a capire che non era una boutade. I voucher si vendevano agli angoli delle strade per una vodka, tremila rubli. Come scrive Naomi Klein nel suo Shock Economy, «nel 1998, oltre 1’80 per cento delle aziende agricole erano in bancarotta, e circa 70 mila fabbriche statali avevano chiuso i battenti, generando un’epidemia di disoccupazione». E «74 milioni di russi vivevano sotto la soglia di povertà, secondo la Banca mondiale». Lavoro non ce n’era nel modo più assoluto. I ragazzi sognavano di fuggire e chiedevano i computer, le pensioni arrivavano in ritardo, gli stipendi non arrivavano più, medici, insegnanti, professori, chi poteva cercava un lavoretto all’estero. Le file nei negozi erano scomparse, come i soldi per comprare. Ovunque fiorivano tetri negozietti temporanei dove si pagava direttamente in dollari. Gli ospedali non davano neanche le lenzuola. La criminalità fioriva, al punto che era diventato rischioso girare di notte anche in una città come Mosca. Nel frattempo, tutti i soldi della Russia erano passati nella tasche di pochi intraprendenti, che diventarono miliardari e potenti, i cosiddetti oligarchi.
A proposito di Khodorkovskij, quando fu arrestato, nel 2003, era il padrone della Yukos, il terzo colosso petrolifero del Paese, e l’aveva acquistata partecipando a un’asta, sebbene fosse stato proprietario della banca Menatep che quell’asta aveva gestito. In pratica, come spiegò poi il responsabile del programma di privatizzazione Alfred Kokh, aveva comprato la Yukos con i soldi della Yukos. Ottenne il 77 per cento delle azioni con 309 milioni di dollari. E poiché il valore reale si aggirava intorno ai 30 miliardi, entrò direttamente a far parte degli uomini più ricchi del mondo (Forbes). Così la vedono i russi. Che hanno ritrovato un po’ di fiducia il giorno in cui è arrivato Putin e ha ripreso in mano, nel bene e nel male, il Paese. Questo dice Tatjana Fjodorovna, che ha avuto una vita lunga e difficile, e partorì il suo primo figlio su un treno mentre fuggiva non sapeva dove coi nazisti alle calcagna. Ogni russo ha una storia incredibile da raccontare, una storia che – proprio come ha dimostrato Emmanuel Carrère con Limonov – vale un romanzo. Loro sì che possono spiegarci perché non si è ancora formata una vera borghesia in Russia. Ma per favore, almeno a Mosca, non chiamatela così.