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 2014  aprile 11 Venerdì calendario

FRANCIA 1938 L’ITALIA FESTEGGIA A PARIGI


Anno luminoso e sciagurato, il 1938, Italia del calcio al suo secondo titolo mondiale e continente europeo fatto sangue in Spagna per la guerra civile e in Austria per la violenta annessione alla Germania.
Due realtà tra le più vitali del panorama calcistico internazionale assenti quindi a forza dalla rassegna che condusse nella Francia di Jules Rimet la terza edizione della Coppa, seconda affermazione italiana a chiusura di un decennio superbo, conquista nel 1931 e nel 1935 della Coppa Internazionale, in pratica campionato europeo dell’epoca, e del titolo olimpico di Berlino, un 15 agosto 1936 esaltato dalla vittoria sull’Austria, bis dell’ala destra Annibale Frossi, da tre stagioni stanziale all’Aquila, 2-1 nei tempi supplementari.
Periodo 4-19 giugno, 37 squadre impegnate nelle qualificazioni, 15 ammesse ai turni finali, dalle Americhe solo Brasile e Cuba. Novità, Francia e Italia ammesse di diritto, quale nazione organizzatrice la prima, vincitrice della precedente edizione, la seconda. Indie olandesi prima squadra asiatica. L’apparizione, nella Svizzera allenata dal viennese Karl Rappan, del verrou, il catenaccio, un giocatore libero da marcature schierato dietro i difensori, tattica che avrebbe trovato dalle nostre parti, nell’Inter del ’53 e ’54, esemplare applicazione da parte di Alfredo Foni, anni dopo essere stato tra i protagonisti della Coppa del ’38.
Tra gli azzurri, Giovanni Ferrari e Giuseppe Meazza furono gli unici superstiti del ’34, il secondo presente in tutte le nove partite delle due Coppe. Il 5 giugno, all’esordio contro la Norvegia, l’Italia trovò a Marsiglia un clima fortemente aggressivo: centinaia, o migliaia, difficile contarli, di fuoriusciti italiani scatenati contro gli azzurri. Ne scrisse Vittorio Pozzo. «Al saluto a braccio teso ci accolse una bordata di fischi e di insulti. L’arbitro e i norvegesi ci guardavano preoccupati. Ordinai l’attenti. Il fracasso riprese. Ordinai nuovamente il saluto per dimostrare che non ci facevamo intimidire. I fischi non durarono a lungo. Infine, si giocò».
Fu il debutto di Silvio Piola, da quattro stagioni in forza alla Lazio, autore della rete decisiva nei tempi supplementari (94’), dopo quelle di Ferraris II (2’) e di Brustad (83’). Sette giorni dopo, a Parigi, contro i padroni di casa e non dissimile ostilità, finì con un gol di Gino Colaussi al 7’, di Heisserer al 10’, e due conclusioni di Piola su imbeccate di Amedeo Biavati al 52’ e al 72’.
Di nuovo a Marsiglia, il 16 giugno, penultimo ostacolo sulla via di Parigi, in pratica una finale anticipata, contro un Brasile reduce da un interminabile scontro con la Cecoslovacchia, pari (1-1) dopo i tempi supplementari e ripetizione della gara (2-1). Era assente, per consentirne il riposo e sottovalutando l’Italia, Leonidas Da Silva, forse il più forte realizzatore del paese sudamericano prima dell’arrivo di Pelé. Fu un suicidio, firmato dal ct Ademir Pimenta. Con in tasca i biglietti per il trasferimento nella capitale, il Brasile evitò l’umiliazione a tre minuti dal termine, inchiodato sul 2-1 da reti di Colaussi al 52’ e di Meazza al 60’ su rigore, segnato con una mano a sorreggere calzoncini cui era venuto meno l’elastico. Leonidas si vendicò rifilando due reti alla Svezia nella finale per il terzo posto e chiudendo la Coppa capocannoniere (7).
19 giugno, ore 15, Colombes, periferia di Parigi, stadio intitolato a Yves-du-Manoir, aristocratico, proteiforme ventitreenne miglior mediano d’apertura nella Francia rugbistica dell’epoca, precipitato con il suo aereo nella mattina del 2 gennaio 1928 poche ore prima che i suoi compagni lo attendessero nello stesso terreno, ignari, al calcio d’inizio contro la Scozia. Fu quell’impianto, con 60.000 spettatori, ad accogliere la finale tra l’Italia ed un’Ungheria esaltata dal 5-1 sulla Svezia. L’incontro si chiuse 4-2, con evidente superiorità degli azzurri, collaudati in ogni reparto, con un fuoriclasse come Meazza regista a tutto campo e due micidiali attaccanti, Piola e Colaussi.
Al termine della partita, Vittorio Pozzo trasmise diecimila battute di commento al suo giornale. Venti anni dopo, all’Olimpiade di Londra, chiuse la sua carriera da commissario tecnico. Meno di un anno dopo, nel rogo di Superga, toccò a lui riconoscere, uno ad uno, quanto restava del Torino e dei suoi colleghi Renato Casalbore, Luigi Cavallero, Renato Tosatti. Morì nel 1968, scrivendo l’ultimo articolo due settimane prima della scomparsa. Malgrado l’enorme debito contratto nei suoi confronti dal calcio, negli ultimi venti anni di vita Pozzo si portò dietro, puntuale, la compagnia d’un nemico invisibile, l’irriconoscenza. E nel ’90, Coppa prodotta e seminata in casa, furono accidia, cinismo, ignoranza a negare al vecchio signore di Torino l’intitolazione del nuovo impianto cittadino. Dei Mondiali, intanto, si riparlerà nel 1950. Il resto lo faranno la guerra e una distesa di croci.
Augusto Frasca