Roberto Giardina, ItaliaOggi 11/4/2014, 11 aprile 2014
E SE COPIASSIMO IL CALCIO TEDESCO?
da Berlino
Il calcio non è politica. Tutto è politica, lo sport e la buona cucina. Sono frasi retoriche e opposte, e ognuno ha la sua idea, che è impossibile cambiare. Come si fa a sostenere che il calcio sia un mondo a sé, non inquinato dalla politica, in un paese, come l’Italia, dove il premier era anche presidente della squadra che vinceva scudetti a ripetizione? E ora gli ex campioni sono in difficoltà, guarda caso, quando anche il loro padrone politico è in difficoltà.
O come si può sostenere la verginità dello sport in Germania? Quando era divisa, la Ddr vinceva medaglie d’oro a dozzine per provare il suo diritto a esistere. E il doping era premiato dallo Stato. Per finire: perché Renzi, giocando fuori casa a Berlino, ha cercato di ingraziarsi l’arbitra d’Europa, Frau Angela, portandole in dono la maglia viola indossata da Gomez, il tedesco dal nome spagnolo, che gioca a Firenze?
Questo per dire che anche la differenza tra il calcio tedesco e quello italiano testimonia il gap tra Italia e Germania in quasi tutti i campi, dallo sport alla politica. Il Borussia Dortmund, dato per spacciato, aveva perso tre a zero a Madrid; ha messo alle corde il Real, ha vinto per due a zero, colpito un palo, e quasi raggiunto i supplementari, trascinato da un pubblico festante, tra una marea di bandiere giallonere. Gli spettatori erano 80 mila, e Dortmund vanta appena 350 mila abitanti, lo stadio è modernissimo, e sempre esaurito anche quando ospita l’ultima in classifica. I biglietti sono economici, non ci sono teppisti, e si possono portare i bambini senza preoccupazioni. Il calcio è un fattore trainante per l’economia in una zona come la Ruhr, con molti problemi dopo la chiusura delle miniere di carbone e delle acciaierie.
Il giorno dopo il Bayern ha schiantato il Manchester United, dopo aver rischiato l’eliminazione. I soliti tedeschi che non si arrendono mai? Ma sono guidati da uno spagnolo e, in squadra, sono in minoranza. Forse sono spinti dal pubblico, e confortati dalla buona amministrazione del loro club. Dicono che sia la squadra più forte del mondo, e non ha un euro di debiti. La guidava Uli Hoeness, che a giorni andrà in galera per evasione fiscale: niente sconti o comprensione per un eroe dello sport. Lui ha accettato la condanna a tre anni e mezzo senza fare appello. Chiedersi che cosa sarebbe capitato da noi è una domanda retorica.
Da noi si gioca sempre in stadi quasi deserti su campi spelacchiati. Colpa della tv, ma la tv c’è anche in Germania. In Italia, conquistare un biglietto è un’impresa, denuncia Zamparini, il patron del mio Palermo. Per evitare le violenze di pochi facinorosi, tutti conosciuti, si condannano i tifosi pacifici. «Siamo in balia di politici inetti», insiste Zamparini, che non conosco. Lui vorrebbe costruire un nuovo stadio a Palermo, ma i burocrati locali lo ostacolano da anni. Chiedersi perché è un’altra domanda retorica. Sostengono che sarebbe una speculazione privata. Ma Zamparini è un imprenditore privato, perché non dovrebbe guadagnare, se rispetta le regole? Un nuovo stadio creerebbe migliaia di posti di lavoro in una città povera.
Noi siamo fuori dalla Champions, e siamo tra i colpevoli d’Europa, e sembra che persino la Grecia stia recuperando meglio di noi. Forse non è casuale. In Germania si rispettano le regole, e si lasciano i privati lavorare in pace, ma se sbagliano pagano subito, come Hoeness, senza decennali cause in tribunale. Gli arbitri fischiano un paio di rigori anche contro il Bayern, senza il timore di venire poi puniti dai boss della Bundesliga; da noi dipende dal colore delle maglie. Se vuol fare carriera, è meglio che l’arbitro finga di essere daltonico. I nostri sono stimati in Europa, dove sbagliano di tanto in tanto, come è inevitabile. In Italia danno il peggio di sé, sempre assolti dai loro capi e dai giornalisti casalinghi. Anche noi siamo colpevoli, nel giudicare squadre e partiti: a Monaco, quando il Bayern eliminò la Fiorentina grazie a un fuori gioco di cinque metri, il pubblico fischiò, e il telecronista si lasciò sfuggire «Es ist eine Schande», è una vergogna. Quando lo sentirò dire in italiano da un mio collega alla tv?
Roberto Giardina, ItaliaOggi 11/4/2014