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 2014  aprile 11 Venerdì calendario

ITALIANI DA EXPORT


L’appuntamento è alle 7 e 30 del mattino. Il piano terra del palazzotto che si erge nel bel mezzo del quartiere di Sc hwabing , a Monaco di Baviera, è pervaso dal profumo di caffè. Normale, vista l’ora. In piedi, tazzina in mano, davanti al tavolone affollato di pezzi di pelle e frammenti di luccicante carrozzeria d’automobile, c’è Luca de Meo. Anche questo silenzioso e sciccoso studio di design, che all’Audi chiamano semplicemente KDM (Konzept Design München), collabora strettamente con il manager milanese, che in giugno compirà 47 anni. L’ex delfino di Sergio Marchionne - laurea in marketing alla Bocconi - è diventato celebre anche fuori dal "giro" delle quattro ruote dopo il fortunato lancio della nuova Fiat 500 (nell’estate del 2007). Nel 2009 è approdato nel gruppo Volkswagen e nel settembre del 2012 è entrato nel board dell’Audi AG, in veste di boss del marketing e delle vendite del marchio più glamour tra i molti controllati dal colosso Volkswagen. L’ufficio di de Meo è a Ingolstadt, la cittadina-simbolo della marca dei quattro cerchi, a 45 minuti di macchina, traffico permettendo. Ma lui abita qui vicino, in centro, e una o due volte al mese inizia la giornata di lavoro proprio da queste stanze.
Da pochi giorni, il capo del KDM è Alessandro Dambrosio, milanese anche lui (41 anni), uno dei fedelissimi di Walter de Silva, guru del design dell’intero gruppo. Dambrosio dirige anche il Konzern Design Studio di Braunschweig, che si occupa delle altre marche del gruppo.
Ed è italiana pure Simona Falcinelli, che nell’orbita Volkswagen è entrata giovanissima (nel 1987, alla Seat, ed è nata a Sondrio nel 1967) e da una quindicina d’anni guida il "Color and trim" dell’Audi Group. Simona è la signora delle tinte, degli accostamenti tra la pelle dei sedili e i materiali che ricoprono l’abitacolo, delle cuciture, delle trame dei tessuti. Èlei fisicamente a miscelare colori fino a trovare il cromatismo adatto per i vestiti delle Audi. Ed è considerata una vera numero uno, tra le "sarte" delle quattro ruote.
Simona dispone sul grande tavolo le opzioni che ha selezionato e de Meo osserva e dice «ok», oppure «non va». Oggi bisogna stabilire la tinta della carrozzeria e la pelle degli interni di una showcar preparata per il Salone dell’auto di Pechino. Se il boss manifesta dubbi, il dibattito lievita.
Il caso del gruppo Volkswagen non è affatto isolato: ai vertici di grandi aziende sparse in giro per il mondo, da Philip Morris International al gruppo LVMH (vedi articolo a pag. 128), i top manager italiani sono sempre più apprezzati, richiesti, contesi. Italiani da esportazione, insomma.
Qui al KDM, nella calma di un quartiere che nel XIX secolo era affollato di pittori, scrittori, musicisti e qualche rivoluzionario, sono state create le forme della piccola monovolume A2, della fascinosa due posti TT, della sportivona elegante A7, e di parecchie concept-car. De Meo dispone di un esercito che conta 2.400 unità solo nell’Audi tedesca, oltre a una cospicua pattuglia di collaboratori sparsi per il mondo, ovunque si venda un’Audi. E infatti il capo è perennemente in viaggio. Anche perché sovente le riunioni del board si tengono lontano da Ingolstadt e dalla Germania. «Per ragioni di sicurezza, però, non prendiamo mai tutti insieme lo stesso aereo», racconta de Meo mentre, sul divanetto dell’ammiraglia A8, lasciamo Monaco diretti a Ingolstadt. Ma come, non guida di persona un’Audi? «Sfrutto il tempo del trasporto per lavorare, col pc o al telefono. Però spesso, il venerdì, torno in città al volant. E guido nel week-end. Di solito scelgo una macchina sportiva».
Luca de Meo si mette a ridere, quando gli si chiede se è un problema essere un top manager italiano in un’azienda tedesca, mentre la Germania fa la locomotiva d’Europa e i paesi dell’Europa meridionale faticano a rilanciare le loro economie. «La Baviera è molto vicina all’Italia, non solo geograficamente, e io ho sentito spesso dire, da bavaresi, che Monaco è la città italiana più settentrionale. I tedeschi vengono a fare le vacanze da noi, dell’Italia amano i luoghi, l’arte, i vini, la cucina. E in Volkswagen c’è un vero culto dell’Italia. Anche grazie a Walter de Silva, che ormai è una leggenda nel nostro gruppo».
De Silva è il responsabile dello stile dell’intero gruppo di Wolfsburg ma ha un evidente debole per la marca dei quattro anelli. E da quando l’ha disegnata, sostiene che la Audi A5 sia la sua creazione più bella. «Non è il solito luogo comune: per i tedeschi l’Italia è davvero sinonimo di gusto. Siamo un valore aggiunto, nella moda come nell’auto», si accalora de Meo. Che, per aggiungere brio alla comunicazione e alla pubblicità, ha ulteriormente incrementato il tasso di italianità dentro l’Audi portando a Ingolstadt Giovanni Perosino, che era al suo fianco ai tempi della Fiat e lo aveva seguito in Germania. È il capo mondiale della "comunicazione marketing", cioè della pubblicità. Il suo ufficio, al primo piano del palazzone di Ingolstadt dove stanno tutti i boss, è a pochi passi da quello di de Meo, che non ha la scrivania, ma un tavolo rotondo. Perosino, torinese cinquantenne, in mattinata deve far vedere al capo le nuove campagne che puntano sulle motorizzazioni "ultra". In programma c’è pure un incontro con Qing Pan, responsabile del mercato cinese. Un paese fondamentale, per l’Audi. Qualcuno considera persino eccessiva la dipendenza della marca da quel mercato. L’anno scorso, Audi ha venduto quasi 1,6 milioni di vetture (con un balzo dell’8,3 per cento rispetto al 2012) e mezzo milione scarso se lo sono comprato proprio i cinesi. «Troppa Cina? Per niente. È un mercato con un altissimo grado di penetrazione delle vetture di lusso, e noi lì siamo i primi nel settore premium. Sono gli altri a invidiarci. Piuttosto, è negli Stati Uniti che dobbiamo accelerare. Audi è arrivata dopo i principali competitor, ma adesso andiamo forte. Gli Usa sono il primo mercato per la R8, la nostra supersportiva, e sulle coste il marchio Audi sta diventando un must. Però ci aspetta grande lavoro, perché Bmw e Mercedes hanno, in America, un parco circolante molto più grande del nostro».
Nell’intensa mattinata in fabbrica con de Meo c’è spazio anche per un blitz all’Augustinhalle, dove Sven Schuwirth, direttore dello sviluppo della marca e della rete distributiva, presenta al capo le ultima novità sul fronte dello "showroom digitale". «Non tutti i concessionari dispongono di ampi spazi per poter esporre tanti modelli, così vogliamo dar loro la possibilità di regalare al visitatore una visione virtuale della vettura sempre più coinvolgente», spiega de Meo. Stanno aprendo le prime Audi City, boutique piccole e attraenti nei centri delle metropoli. «Abbiamo cominciato con Londra, Pechino e Berlino. Vent’anni fa potevi avere i dealer più o meno ovunque, sapevi che la gente ci sarebbe andata comunque. Ora questo modello non basta, bisogna farsi vedere dove la gente c’è già: quindi nelle vie dello shopping "giusto"».
Ma i soldi non si fanno solo vendendole, le macchine. Il cosiddetto "post-vendita" è un business decisivo. De Meo ascolta con attenzione Bernd Hoffmann, responsabile del servizio clienti e dei ricambi originali, che gli illustra le ultime novità del "Progetto Service", con tutte le soluzioni a disposizione del cliente per gestire tagliandi, per interventi in officina e per capire in anticipo quali problemi potrebbe avere la sua auto. Stremati dall’ondata di informazioni tecnico-commerciali, cerchiamo rifugio nello stile: qualche critico sostiene infatti che le Audi siano talvolta troppo simili tra loro. «Dobbiamo mantenere coerenza e identità del marchio: è stata una delle armi del successo. La differenziazione si realizza anche con la moltiplicazione dei modelli. Dieci anni fa in gamma ne avevamo venti. Ora sono cinquanta e presto arriveremo a sessanta», sottolinea de Meo. L’Audi ha annunciato 22 miliardi di euro di investimenti entro il 2018, un’enormità. Una bella responsabilità per de Meo. E per i suoi scudieri "Italians" in Baviera. Giacché produrle, le macchine premium, è un conto. Poi bisogna venderle. Il compito di Luca.


EXECUTIVE TRICOLORI E GIRAMONDO –

1. Matteo Pellegrini, presidente di Philip Morris international per la regione asiatica. Un colpo di fulmine che dura da un ventennio, quello tra il manager milanese Matteo Pellegrini, classe 1962, e le “bionde” della Philip Morris International. A soli 34 anni, dopo un Master di business administration in Comunicazione e Marketing alla Bocconi, Pellegrini ricopriva già il ruolo di amministratore delegato per le filiali della Pmi in Italia, Francia, Spagna e Portogallo. E dal 2007 guida il business nei 24 Paesi asiatici in cui è presente il colosso del tabacco americano. Con volumi più che interessanti: escludendo la Cina, infatti, nel 2013 l’ammontare dei ricavi nell’area di pertinenza di Pellegrini è stato di 10,5 miliardi di dollari, e l’utile consolidato (margine operativo lordo) di 4,6 miliardi. Numeri da capogiro, anche per Pellegrini,
che secondo “Forbes” nello stesso anno, sommando stipendio di base, premi e incentivi, ha guadagnato più di 4 milioni e mezzo di dollari.
2. alessandro riva, executive vice President e global Head oncology development & Medical affairs, novartis Pharmaceuticals. Italiani, uomini di scienza e di business. Come Alessandro Riva,
vice presidente esecutivo e capo del ramo Oncologia di Novartis Pharmaceuticals. A due passi dalla Grande Mela: dall’headquarter di East Hanover, nel New Jersey, il medico italiano dal 2005 coordina il piccolo esercito di 2 mila ricercatori
che per Novartis studiano le molecole più promettenti per la lotta ai tumori. Un giro d’affari, quello dei medicinali oncologici, che lo scorso anno ha generato per la Novartis 11 miliardi e 216 milioni di dollari ed
è cresciuto rispetto al 2012 del 3 per cento. Formatosi come medico e oncologo all’Università di Milano, Riva negli ultimi anni ha seguito in prima persona lo sviluppo di numerose terapie ed è autore o co-autore
di più di 100 articoli scientifici.
3. luca lindner, presidente di Mccann Worldgroup. Il tricolore, accanto alla bandiera a stelle e strisce, negli uffici al 622 della Third Avenue di New York. Da qui, da dicembre, l’italiano Luca Lindner guida il colosso della comunicazione e del marketing McCann Worldgroup. Storica agenzia americana che, con 2,4 miliardi di dollari di fatturato (questi i dati della “bibbia” dei pubblicitari, “Advertising Age”) e 25 mila dipendenti sparsi in 180 uffici nel mondo, si contende con la giapponese Dentsu il ruolo di leader mondiale del settore. Promozione meritata sul campo per Lindner, che e diventato presidente dopo dieci anni in McCann, l’ultimo trascorso a sovraintendere il business nelle due Americhe (del Nord e del Sud). Una carriera, però, iniziata più di vent’anni fa a Parigi e continuata sotto il segno dell’internazionalità, tanto che gli altri membri del board McCann non esitano a definirlo «un vero globalist». 4. Ornella Barra, Chief executive, wholesale e brands di alliance Boots. Dalla farmacia del Tigullio al posto fisso nelle classifiche delle donne più influenti del pianeta. Partita da Chiavari, in provincia di Genova, in trent’anni di carriera da manager- imprenditrice Ornella Barra, che oggi ha 60 anni, è infatti riuscita assieme al compagno Stefano Pessina a creare una multinazionale della salute che rifornisce ogni giorno più di 170 mila farmacie e ospedali in venti diverse nazioni, per un fatturato complessivo che nel 2012-2013 ha superato i 27 miliardi di euro. Un gigante con quartier generale a Berna, in Svizzera, chiamato Alliance Boots, in cui la Barra ricopre oggi anche il ruolo di chief executive per la distribuzione farmaceutica e i marchi. Un’ascesa che l’ha portata, da alcuni anni, a diventare una presenza fissa (unica italiana assieme a Marina Berlusconi) nella classifica stilata da “Fortune” con le 50 donne più importanti del mondo. Il futuro? Le aspettative della business woman ligure sono rivolte allo sviluppo del mercato americano, grazie all’accordo siglato con Walgreens, la più grande catena retail di farmaci Usa.
5. antOniO BellOni, direttore generale del Gruppo lVMH. Al gruppo francese LVMH Moët Hennessy - Louis Vuitton, non è un mistero, l’Italia piace. Piacciono i marchi e le firme che da sempre sono sinonimo dello stile made in Italy, da Fendi a Pucci a Bulgari, fino alla pasticceria Cova di Milano e a Loro Piana, che il patron di LVMH, Bernard Arnault, si è via via comprato nel tempo. Non se l’è comprato ma l’ha ingaggiato e se lo tiene stretto, invece, il manager italiano che dal 2001 ha voluto come direttore generale del gruppo: è Antonio Belloni, classe 1954, laurea in Economia a Pavia e già top manager Procter & Gamble. In questi 13 anni il gruppo specializzato in prodotti di lusso ha continuato a macinare profitti. Passando, in anni di crisi come questi, da un fatturato di 23,7 miliardi di euro nel 2011 ai 29,1 del 2013. E parallelamente cresce anche il guadagno del “legionario” nato a Gallarate, in provincia di Varese (la Legione d’Onore francese gli è stata conferita nel 2008): ultimo stipendio, secondo “Bloomberg”, 7,6 milioni di euro. 6. andrea OrCel, amministratore delegato della banca d’investimento di Ubs. Super manager di casa nostra anche nell’Olimpo mondiale delle banche. È il caso del romano Andrea Orcel, che da quasi due anni amministra la banca d’investimento della svizzera Ubs. Posizione alla quale è approdato, a sorpresa, da Bank of America Merrill Lynch, dove sin dal 1992 aveva ricoperto ruoli sempre più importanti. Classe 1963 e laurea in economia all’ateneo di Roma, dopo un Mba alla scuola internazionale INSEAD, Orcel ha mosso i primi passi professionali in Goldman Sachs e in Boston consulting group. Manager “ruggente”, nell’ultimo decennio Orcel è stato protagonista di numerose importanti operazioni finanziarie a livello europeo. L’esperienza in Ubs, che nell’ultimo anno è tornata a registrare risultati positivi (utile netto di 2,6 miliardi di euro dopo il rosso registrato nel 2012), sta però riservando non poche soddisfazioni al manager italiano, anche dal punto di vista retributivo: Orcel nel 2013, con 11,4 milioni di franchi elvetici (9,3 milioni di euro), è infatti risultato uno dei top manager italiani più pagati dell’anno.