Giuseppe Scaraffia, Sette 11/4/2014, 11 aprile 2014
ROTHSCHILD, IL SUO FILETTO E LE RAGAZZE SUL VASSOIO
Nessuno dei clienti in frac che, il 31 dicembre 1899, fissavano attraverso il monocolo le più note bellezze della capitale avrebbe potuto dubitare che quello che stava diventando il più famoso ristorante di Parigi sarebbe rimasto per sempre così. Che, attraversando le tempeste della modernità, Maxim’s si sarebbe trasformato in una fiammante reliquia della grandeur della capitale del XIX secolo.
Quel capodanno, Caroline Otero era abbondantemente ingioiellata. Più raffinata, Lyane de Pougy aveva solo tre fili di perle al collo sottile. Poco prima di mezzanotte venne servita su un immenso piatto una fanciulla nuda, destinata a divorare in poco tempo i beni di molti dei presenti.
Poi i granduchi russi seminarono mance regali, mentre il caviale veniva offerto in zuppiere da minestra. Un anno prima la fama del locale era stata rinforzata dal successo della Dame de chez Maxim’s di un affezionato avventore, Georges Feydeau: le avventure di un solenne medico che, dopo una notte di baldoria nel celebre ristorante, si ritrovava nel letto una delle piccanti figure del locale.
Il menu era farcito di allusioni agli avventori più noti, si andava dalle “patate cocotte” alla “sella d’agnello Bella Otero” fino al soufflé Rothschild.
Nei celebri balli in maschera di Maxim’s le cortigiane «suggestivamente spogliate» erano come sempre cariche di gioielli e di voglia di vivere. Viaggiatori e turisti erano irresistibilmente attratti verso quel luogo mitico con «l’idea di una notte passata in questo elegantissimo locale, favolosamente perverso… il punto più incantevole», secondo le guide, «dell’Eden parigino».
Regale nonchalance. José Roman, l’autore di queste piccanti memorie, aveva rapidamente imparato le regole della casa. Bisognava sapere riconoscere gli ospiti e trattarli di conseguenza, come era indispensabile sapere il livello di cottura del filetto del barone de Rothschild o non fare sedere un nuovo venuto ai tavoli di personalità come il principe de Sagan. Gli inchini di Eugène Cornuché, passato dalle cucine alla direzione del locale, sapevano assumere tutte le sfumature. Profondi davanti al principe di Galles, più elusivi davanti ai grandi mondani, da Castellane a Lorrain, che erano anche grandi debitori. Infatti nessuno dei dandies si sognava di pagare. La loro presenza era già un dono.
Il salotto tra il bar e la sala rallegrata dall’orchestra veniva chiamato, per la sua forma, l’omnibus. Era la vetrina di Maxim’s. Ma spesso le teste coronate preferivano le gioie dell’incognito. «Qui è meraviglioso. Tutti mi conoscono, ma nessuno lo fa vedere», si rallegrava il futuro re d’Inghilterra.
Solo dopo le dieci, orario di chiusura dei teatri, iniziava la serata vera e propria che spesso si prolungava fino all’alba. Le spalle nude delle sirene di Maxim’s erano carezzate dalle fioche luci dei lampadari Modern Style. La Bella Otero, che i nemici chiamavano «La bella Otaria», aveva, rammenta Colette, dei seni «che ricordavano dei limoni allungati, sodi e rialzati in punta». Come le altre tre divinità di Maxim’s, Liane de Pougy, Cléo de Mérode ed Emilienne d’Alençon, Carolina era ascesa dalla folla pittoresca che sostava nell’omnibus per approdare trionfalmente al salone.
Un’arte complessa. Al compleanno del re del cotone si ripeté il colpo di scena della ragazza nuda servita su un vassoio, mentre il granduca Ivan si afflosciava dopo avere scolato dieci bottiglie di Mumm. Le grandi cortigiane erano le dee di quell’allegro Olimpo. I giornali tuttavia si limitavano ad alludere discretamente ai gradini dorati di quelle sfavillanti carriere, sorvolando sui lussuosi salottini in cui erano state discretamente vinte tante battaglie.
La cocaina fluiva silenziosamente nelle toelette. Nell’atmosfera effervescente si mescolavano i profumi delle donne, mentre il bianco e nero degli abiti degli uomini faceva risaltare le sete luccicanti degli abiti femminili. Solo la quantità dei gioielli e la pesantezza del trucco distingueva le professioniste dalle donne perbene, desiderose di esplorare quell’universo proibito.
Durante la prima guerra mondiale i nuovi eroi, i piloti dei fragili aerei, erano gli unici autorizzati a presentarsi in divisa e non in abito da sera. Con la pace, il ritmo di Maxim’s era ritornato convulso. Dal suo osservatorio, Roman aveva notato la decadenza della prostituzione d’alto bordo. Le nuove attrazioni «non sapevano che è un’arte piuttosto complessa».
La crisi del 1929 aveva diradato visibilmente le presenze, ma nel 1934 le sorti di Maxim’s iniziarono a risalire. Paul Poiret, il grande sarto, celebre per le sue spettacolari feste, consultato sui possibili mutamenti, aveva sentenziato: «Non cambiate niente!». Per tornare ai fulgori passati il maître del momento aveva silenziosamente iniziato a scremare gli ospiti meno all’altezza del locale. Ricchezza, eleganza, bellezza, nobiltà erano le doti richieste ai clienti. Così altezze reali, stelle dello spettacolo e grandi famiglie avevano ripreso a frequentarlo.
Niente di più diverso da Maxim’s dell’uomo malinconico e taciturno che accettò di riscrivere le memorie del fattorino José Roman. Raymond Queneau era povero, viveva di lavoretti e lezioni private. Ma erano proprio l’estraneità del mondo e del linguaggio di Roman a interessare quel trentenne impegnato nell’impossibile scommessa di avvicinare la lingua scritta a quella parlata.
Quando i nazisti occuparono Parigi, si affrettarono a cercare un’eco della Belle Epoque in quel tempio Liberty. Ai clienti in divisa era riservato il primo piano per evitare che i passanti li vedessero al pianterreno, dove continuavano a cenare vedettes come Chanel, Cocteau, Guitry, Giraudoux e Marie-Laure de Noailles. Dopo una fase difficile alla Liberazione, Maxim’s era tornato a brillare. Il cinquantesimo anniversario venne celebrato con fasto.
Jean Cocteau, con le maniche dello smoking rovesciate sui candidi polsini, celebrò la vittoria del ristorante sulla storia: «Maxim’s! Siamo tra le rovine al chiaro di luna? No, lo sfondo è intatto».